lunedì 30 luglio 2012

Il provocatore e le feste

Carmen Boullosa (da Edmundo Paz Soldán, Gustavo Faverón Patriau, a cura di, Bolaño selvaggio, Senzapatria Editore)

Trad. di Giovanni Agnoloni

Quando entrai nel mondo letterario di Città del Messico portandomi sotto braccio le mie prime poesie – e sognando di scriverne molte altre ancora –, ci misi un attimo a rendermi conto che il territorio dei giovani poeti era diviso in due. Era il 1974, la città viveva i suoi ultimi anni d’oro, e in breve sarebbe stata sfregiata dagli Ejes viales, grossi viali unidirezionali che tagliano i quartieri antichi (idea di Hank González, leggendario per la sua vorace corruzione, non precisamente per essere un nostro ‘Mosè’ dai grandiosi progetti), strade decisamente ad hoc per i quotidiani imbottigliamenti di traffico. Allora non vedevo tutto questo splendore, nella città, ed ero convinta di essere arrivata tardi, per due motivi. Innanzitutto, prima del ‘68 era successo tutto ciò che contava qualcosa. Avevo vissuto il movimento sessantottino per sentito dire, tramite mia madre, che ogni giorno tornava dall’università con notizie e volantini. Anche l’università pubblica (UNAM) aveva perso i suoi caffè, chiusi a partire da quell’anno. Il colmo (per me): mia madre era morta nel ‘69, per cui passai dall’essere una bambina iperprotetta in una scuola di monache al vedi di farcela da sola, quando mio padre si sposò con una matrigna simile a quella delle favole. E ancora non frequentavo il mio circolo di amiche, scrittrici o artiste, con le quali avrei formato il mio scudo, la mia allegria, il mio gruppo. Il secondo motivo era che credevo di essere vecchissima: ben presto avrei compiuto vent’anni, e i giovani della mia generazione pubblicavano da un sacco di tempo, erano in gambissima, mentre io a malapena riuscivo a cavarmela da me: ero già stata cantante rock in un gruppo heavy metal, e lo stesso (e con pessimi risultati) in un gruppo di musica pop, per guadagnare qualche peso; lavorai in unbar nella vicina città di Toluca, feci la hostess alla fiera del bestiame, assunta dall’Ambasciata americana, maestra di studenti di un liceo praticamente della mia età; tenni un corso estivo d’arte per bambini, e in questo periodo una mia sorella minore morì in un incidente, portandosi via quel poco di serenità e sicurezza che mi restava. Nei corridoi della Facoltà di Lettere e Filosofia camminava Alcira, poetessa uruguayana, che era andata fuori di testa da quando era rimasta chiusa per più di dieci giorni nei bagni della Facoltà nel ‘68, durante l’occupazione militare; Bolaño la trasforma in un personaggio de I detective selvaggi (per usare le sue parole, “un poliziesco, ma anche un roman-fleuve e un Bildungsroman”), e si tratta di Auxilio Lacouture, che è inoltre protagonista e voce narrante di Amuleto. I poeti della mia generazione si erano schierati in partiti antagonistici preesistenti. Uno ammirava il poeta popolare, Efraín Huerta – famoso per le sue ‘mini-poesie’, cariche di umorismo, disinvoltura e freschezza –, e l’altro quelli della rivista Plural, diretta da Octavio Paz – il futuro Premio Nobel, intellettuale e cosmopolita – e curata da un formidabile gruppo di scrittori – García Ponce, Elizondo, De la Colina e l’(anche) poeta Tomás Segovia. Gli autori ‘raffinati’ in contrapposizione a quelli ‘di strada’, sebbene nessuna delle due fazioni fosse strettamente quello che dichiarava di essere. Octavio Paz ed Efraín Huerta discendono dalla stessa tradizione letteraria messicana. Entrambi nacquero nel 1914, e sono della stessa generazione di Rulfo. Da giovani, Paz e Huerta curarono insieme, alla fine degli anni ‘30, una rivista, Taller. Con gli anni si allontanarono. Erano nate in loro differenze estetiche, ma soprattutto politiche. Octavio Paz aveva preso le distanze dallo stalinismo e in seguito dalla Rivoluzione cubana. Efraín no. Quelli della ‘parte’ di Paz chiamavano gli efrainiti stalinisti. I sostenitori di Efraín chiamavano gli octaviani reazionari. Nessuno degli appellativi era del tutto esatto. C’era di più, nelle loro avversioni e nelle loro affinità, e c’era anche meno. I giovani poeti efrainiti percorrevano le strade a piedi o in autobus, erano iconoclasti, partecipavano a seminari, leggevano, passavano al setaccio e rubavano libri dalle librerie, portavano borse a tracolla, capelli lunghi, sandali huarache, con la suola ricavata da pneumatici, pubblicavano qua e là e passavano delle ore nei caffè del centro della città, specialmente nel Café La Habana, e in bar di basso livello. I giovani poeti octaviani si criticavano ferocemente a vicenda le poesie seduti a tavoli di caffè vicini a quelli dei sostenitori di Efraín, compravano o rubavano libri nelle librerie, portavano borse a tracolla e capelli lunghi, e quasi sempre sandali huarache, andavano per le strade della città a piedi o in autobus o nelle loro macchine, pubblicavano nei supplementi e sulle riviste vicine a Octavio Paz. Alcuni degli efrainiti erano bellicosi, si presentavano agli eventi letterari a fischiare, giudicare, polemizzare e far confusione. Si autodefinivano gli Infrarealisti ed erano comandati da Roberto Bolaño, che scrisse e firmò il Manifesto Infrarealista del 1976 – con l’atteggiamento irriverente e spavaldo dei surrealisti; secondo Bolaño stesso, l’infrarealismo era la versione messicana di Dada. Paz elogiava le avanguardie che erano state così fedeli ai manifesti, ed era stato molto vicino ai surrealisti. Noi octaviani ed efrainiti ci vedevamo come inconciliabili. In realtà, eravamo tutti rami dello stesso albero, come evidenzia il Manifesto infrarealista: Un nuovo lirismo, che in America Latina comincia a crescere, a sostenersi in modi che non smettono di meravigliarci. La tenerezza come un esercizio di velocità. Respirazione e calore. Esperienza a briglia sciolta, strutture che divorano se stesse, folli contraddizioni. Le parole sembrano dettate da Vicente Huidobro (1885-1915), cileno come Bolaño, che è stato in rapporti con più avanguardie di chiunque altro, nella storia letteraria mondiale, e che sia Paz che Huerta avevano ammirato fin da giovani. Tra gli efrainiti (e con loro gli infrarealisti) e gli octaviani c’era attrito – e le battaglie erano attizzate dalla generosità dello Stato messicano, principale mecenate di artisti e autori, sotto il cui controllo si trovavano allora tutti i mezzi di comunicazione. Non erano blocchi senza divergenze. Roberto Bolaño, che ammirava ed era amico di Efraín Huerta, ha ripetuto in varie interviste che “rispetto a lui aveva grandi differenze politiche”, che non devono sorprenderci, perché era filo-trotskista. Per quel che ne so, soltanto due erano amici di octaviani ed efrainiti (e in special modo di Roberto Bolaño): tra i poeti, Verónica Volkow, la bisnipote di Trotsky. Tra gli editori, solo Juan Pascoe, che era anche stampatore del Taller Martín Pescador, così battezzato da Bolaño. Fu nella tipografia di Pascoe che tanto Bolaño quanto io pubblicammo i nostri primi libri, elegantissime edizioni private, libretti stampati con caratteri mobili in una pressa tipografica manuale su carta umida, dalla quale uscirono anche i primi lavori di José Luis Rivas, Francisco Segovia, Verónica Volkow e altri autori della nostra generazione. Nel suo Manifesto infrarealista, Roberto Bolaño diceva: I borghesi e i piccoli borghesi vivono la vita sempre in festa. Tutti i fine-settimana vanno a una festa. Il proletariato non conosce feste. Solo funerali con ritmo. Ma questo cambierà. Gli sfruttati faranno una grande festa. Memoria e ghigliottine. In senso letterale, Bolaño aveva ragione, per quanto riguardava le feste celebrate (ma per fortuna non nelle sue affermazioni ‘alla Robespierre’). Il mondo letterario era piccolo e ristretto, e andavamo avanti a feste (se così possiamo chiamare i reading, le letture, gli opening, i caffè). Ci vedevamo spesso. Ricorderò cinque di queste feste, tra il ‘73 e il ‘76, non strettamente in ordine cronologico. Una è il festeggiamento del libro di Efraín Huerta nella casa editrice di Juan Pascoe. Venne un gran numero di persone, nella grande casa nel quartiere di Mixcoac. Gli efrainiti cantarono a squarciagola rancheras e boleros. Gli infrarealisti rimasero “accanto al barile di pulque che avevamo portato, e a un formaggio di 25 kg fatto dai mennoniti, che ci eravamo portati dietro fin dal mercato de La Merced.” Io non assistetti a questo festeggiamento, per cui mi rifaccio al nostro editore e anfitrione. La seconda è la festa per celebrare il libro di Octavio Paz pubblicato dalla stessa casa editrice: anche qui vennero tantissimi octaviani. Si conversò molto. In quest’occasione non si beveva pulque ma toritos, alcol a 96° con latte di riso o di arachidi (quest’ultimo quasi letale). Con i miei stessi occhi vidi alcuni infrarealisti (i sabotatori) lanciare un bicchiere contro Paz (che stava benissimo, con una giacca elegante) e il poeta scuotersi la cravatta e poi proseguire la conversazione come se non fosse successo nulla, sorridendo. La terza festa, che, ricordo, ebbe luogo qualche tempo prima, in occasione dell’opening dell’esposizione di Basha Batouska, la moglie del saggista e poeta Gabriel Zaíd (Zarco, ne I detective selvaggi). Qui non vennero infrarealisti, ne sono del tutto certa, perché non ci furono incidenti. Noi giovani poeti arrivammo portando scarpe normali, ma con borse a tracolla e senza esser prima andati a farci i capelli. In questa circostanza conobbi personalmente Octavio Paz e chiacchierai con lui. Avevo appena pubblicato la mia prima poesia in un supplemento letterario ‘professionale’, e mi offrì dei commenti molto favorevoli, al riguardo. Va da sé che mi sembrò di volare tra le nuvole. Mi invitò a fargli visita a casa sua. Il suo appartamento (dove pure evitai di andare in sandali) era splendido, elegante, pieno di opere d’arte indiane e messicane, di dipinti straordinari, e aveva una sua biblioteca privata. Una casa davvero bella, piena di luce; la casa di un poeta che era stato ambasciatore. Aveva delle maniere impeccabili e una conversazione senza pari. Poiché non sono mai stata a casa di Efraín Huerta (dove sicuramente le persone saranno andate in sandali huarache), mi attengo alla descrizione di un suo angolo che è stata fatta da Juan Pascoe, lo stampatore-editore: “aveva, incollati, ritagli di giornali, presi da diversi articoli, fuori dal loro contesto, con il seguente annuncio: “OCTAVIO PAZ HA UCCISO SUA MADRE” (...) una foto di Alejo Carpentier, un’altra di Ernesto Cardenal, una bandierina cubana, varie versioni decorative della falce e del martello.” Non andai neanche alla quarta festa, che ricordo sempre attraverso le parole del nostro editore Pascoe: Bolaño presiede l’apertura formale del gruppo infrarealista. Davanti a una quarantina di persone, spiega i motivi del suo odio per Octavio Paz: “i suoi nefasti crimini al servizio del fascismo internazionale, i suoi pessimi cumuli di parole che risibilmente chiamava ‘poesie’, la sua abietta offesa all’intelligenza latinoamericana, il tedio della ‘rivista letteraria’ che puzzava di vomito e si faceva chiamare Plural.” Nella quinta delle feste qui enumerate, Paz e Huerta lessero insieme delle poesie. Fu un’occasione storica. Quando Paz cominciò a leggere, le orde efrainite, o forse solo gli infrarealisti, cominciarono a fischiarlo. Efraín – a cui avevano praticato la laringectomia – si alzò e con le braccia richiese ai suoi ‘fedeli’ silenzio e rispetto. Lasciarono Paz leggere in silenzio. Non so per certo se Bolaño fosse presente alla lettura di San Ildefonso, perché vidi il suo gruppo solo da lontano: mi facevano paura. Quando feci la mia prima lettura poetica – rientrava nel premio per aver vinto la sostanziosa borsa Salvador Novo, per poeti sotto i ventun anni, ed è menzionata in Amuleto perché la ottiene Ernesto San Epifanio (Darío Galicia), e per celebrarlo si tiene una gran festa –, passai la notte in bianco, pensando che gli infrarealisti sarebbero venuti a fare sabotaggio. I temibili si presentarono alla lettura, fischiarono i poeti quando ne ebbero voglia, ma a me risparmiarono la vita. Forse per Darío Galicia, che era stato borsista l’anno precedente, e del quale ero amica. Ne avevo fin troppe con i miei demoni personali, per potermela vedere anche con gli infrarealisti. Tutto mi costava un grande sforzo. Avevo letto le poesie di Bolaño, che erano state stampate da Juan Pascoe, e lo rispettavo. Era un buon momento per vivere nell’allora bellissima Città del Messico. Si poteva parlare con Paz o con Huerta, Rius, Arreola, Carroza e Aragón, Tito Monterroso, Rulfo o Elizondo. Alla fine dei conti, nella nostra città vivevano fin dagli anni ‘50 anche García Márquez e Mutis. La sapeva fin troppo bene, l’autore di Amuleto. La galleria di autori latinoamericani era ampia e accessibile. Negli anni ‘70, l’onda di esiliati che venivano dall’America Latina portava un’aria nuova nell’ambiente. Io, per come potevo, aprivo gli occhi e m’imbattevo nei Mostri Sacri in caffè, librerie od opening. Ormai ero rimasta senza casa, e loro sarebbero stati la mia nuova famiglia. Bolaño lasciò il Messico nel ‘77. Perché se ne andò da una città splendida, che inoltre gli dava da vivere con quello che scriveva? Si pagò il biglietto con quanto ricevette per due articoli in “una rivista”, per andare a lavorare come “lavapiatti, cameriere, vigilante notturno, spazzino, scaricatore di porto, vendemmiatore.” Forse quel che desiderava veramente era, come disse in un’intervista: vivere fuori dalla letteratura. Io in Messico vivevo a stretto contatto con la letteratura. Vivevo tra scrittori e mi muovevo in un mondo nel quale coloro che non erano scrittori erano artisti. E a Barcellona cominciai a muovermi in un mondo nel quale non c’erano scrittori. Avevo amici scrittori, ma poco a poco iniziai ad avere amici di altro tipo. Feci di tutto, com’è evidente... E mi sembrò magnifico. Fu per seguire i dettami del suo Manifesto infrarealista? Il rischio sta sempre da un’altra parte. Il vero poeta è quello che si abbandona sempre. Mai troppo tempo in uno stesso posto, come i guerriglieri, come gli ufo, come gli occhi bianchi degli ergastolani. LASCIATE TUTTO, DI NUOVO / METTETEVI IN MARCIA. Lui partiva, lasciandosi andare, perché la verità è che era già una figura di primo piano nel nostro mondo letterario. Se ne andò prima che potessi frequentarlo. Quando ormai ero cresciuta, libera da quella cosa spaventosa che è l’essere molto giovani, ebbi come compagno uno dei grandi efrainiti, Alejandro Aura, il padre dei miei due figli. Paz quasi non me lo perdona. Mario Santiago (Ulises Lima nell’opera di Bolaño) veniva a casa, spesso portandosi sottobraccio dei piccoli opuscoli con le sue nuove poesie, che lui stesso pubblicava, e beveva in quantità allarmanti, da buon efrainita. Alcuni anni dopo, quando avevo già pubblicato i miei primi due libri di poesie e i miei primi due romanzi, un giornalista, che stava facendo un reportage al riguardo, mi domandò con quale ‘fazione’ mi schierassi (se quella di Huerta o quella di Paz). Risposi che stavo dalla parte di Ramón López Velarde, il poeta che morì al termine della Rivoluzione Messicana, uno dei preferiti di Bolaño, e anche uno di quelli venerati da Paz – Octavio gli dedicò molte pagine – e da Huerta. La domanda “Paz o Huerta?” era quella giusta. D’altro canto, nessuno pensava a una contrapposizione pro o contro il “Realismo magico”. Quando eravamo ‘quei’ giovani latinoamericani, non era questo il parametro che prevaleva – o per il quale optare. C’era fin troppo con cui confrontarsi, negli anni ‘70: Cortázar, Donoso, Ibargüengoitia. Diversi tra loro, praticavano generi differenti, come lo stesso García Márquez, tanto realismo o giornalismo quanta immaginazione o fantasia. Le stelle narrative del nostro cielo erano tante e brillavano con egual forza. Sia nel ‘partito’ degli octaviani, sia in quelli degli efrainiti, c’era una suddivisione tra i narratori. C’erano quelli che provavano ammirazione per “La Onda” (un movimento di narratori urbani realisti, che avrebbero potuto essere efrainiti) e quelli che si ritenevano ‘arreorulfobioycasariani’, che preferivano non il “Realismo magico”, ma l’ottica dell’immaginazione, i fantasmi, la follia e i sogni (come ne L’invenzione di Morel di Bioy Casares, nei racconti di Borges o Silvana Ocampo – avrebbero potuto essere in qualche modo paralleli agli octaviani). Insisto nel dire che le grandi stelle andavano e venivano da un genere all’altro. Nell’una come nell’altra ‘scuola’, si poteva maltrattare la forma lineare, antica, narrativa. Sapevamo che bisognava seguire la tradizione, per poi tradirla bene. Questo è precisamente quel che ha fatto Bolaño, colmando il divario tra le due ‘fazioni’ narrative e poetiche. Nel suo primo lungo romanzo (I detective selvaggi) c’è più de “La Onda”, diciamo di ‘efrainita’, anche se non esattamente. In Amuleto e nel prodigioso 2666, i sogni illuminano la realtà e la realtà illumina i sogni collettivi; c’è surrealismo, fantasia e follia, e anche uno sguardo freddo verso la realtà. Anni dopo, come noi tutti, Bolaño dovette dare una risposta al dilemma se dire sì o no al “realismo magico”. La domanda ci venne lanciata dalle generazioni successive alla nostra, per le quali non esisteva più un mondo letterario introspettivo e ricco come quello che avevamo avuto negli anni ‘70. I più giovani valutano il panorama letterario latinoamericano con i criteri di chi ha letto solo le poche opere che sono state tradotte in inglese, e preferiscono i libri non troppo lunghi, perché devono stare in valigia. È inevitabile: con le tragedie politiche ed economiche dell’America Latina, le case editrici collassarono e i circoli si frammentarono notevolmente. Efraín Huerta morì nell’82. Octavio nel ‘98. Città del Messico oggi è come una fotografia di quello che fu negli anni ‘70, ritoccata con Photoshop da un folle. L’anno in cui nacqui io la cifra ufficiale era di 3 milioni di abitanti. Oggi quella non ufficiale parla di 23 milioni. Quando lessi I detective selvaggi e Amuleto, che erano usciti da poco, fu come tornare nella nostra casa negli anni ‘70, la bella casa che ci toccò nella nostra (infernale) gioventù. Alcuni romanzieri fanno della loro infanzia il paradiso irrimediabilmente perduto (e sempre avvelenato) al quale, scrivendo, vogliono ritornare. Roberto Bolaño ha fatto propria la nostra gioventù e l’ha ricostruita nei suoi romanzi. Leggerli era sentirmi a casa, e non solo per la città e per gli ambienti riconoscibili, ma anche per un’affinità, un gusto. Per me era ovvio che ci eravamo preparati, come altri narratori della nostra generazione (Sada, Hinojosa, Villoro), nel mondo degli anni ‘70, all’ombra del ‘68 e dei colpi di stato militari del Cono Sud e delle guerriglie: i diseredati. Tra romanzieri della stessa generazione è difficile l’ammirazione, ma quando si verifica è una fortuna. Io Roberto lo ammiro. E ho avuto la doppia fortuna di esserne a mia volta ammirata. Ci conoscemmo formalmente vent’anni dopo che lui aveva lasciato il Messico, a Vienna (che, al contrario di Città del Messico, oggi ha un terzo degli abitanti di una volta). Gli unici due relatori eravamo lui ed io. Ci avevano invitati a parlare di un tema che apparteneva a Bolaño, non a me: l’esilio. Parlai di ciò che mi venne voglia di dire, e Bolaño pure, uscendo deliberatamente dal tema. Ci riconoscemmo immediatamente come fratelli, lo portai con me alla cena che mi veniva offerta all’Ambasciata, e in cambio (o per vendicarsi) lui mi portò a conoscere, in periferia, l’angolo più brutto e sgradevole possibile del corso del Danubio, dove delle sgraziate anatre nuotavano con sorprendente goffaggine. Bolaño seppe interpretare la lezione del cieco, e mi rivelò una Vienna che era più simile a Città del Messico di quanto non si possa immaginare. Evitò che finissimo in uno qualsiasi dei luoghi tipici – che a me piace moltissimo visitare –, convinto che saremmo stati attaccati dai neonazisti. A partire da allora, intavolammo una corrispondenza che non s’interruppe mai; ci scrivevamo quasi tutti i giorni. Credo che neanche una volta ci soffermammo sul “realismo magico”, però certamente parlammo male di molti scrittori. Ci ritrovammo anche in occasione di altri eventi letterari, o quasi. In una circostanza, in cui andai per dei reading a Nîmes, arrivai in treno a Blanes, mangiai con lui, con Carolina, sua moglie, e con suo figlio Lautaro (la “scintillina”, come lui chiamava Alexandra, non era ancora arrivata), davanti al mare. Quando uscì il mio romanzo su Cleopatra, generosamente viaggiò fino a Madrid per presentarlo – un romanzo così anomalo, né realista né fantastico ma anche le due cose insieme, che aveva incantato Roberto fin da quando era ancora un manoscritto. Il 2 luglio 2003 gli scrissi rimproverandolo per non aver risposto a un mio messaggio di un paio di giorni prima. Il 3 scrisse Carolina: “Cara Carmen, Roberto mi chiede che risponda alla sua posta e comunichi che è stato ricoverato... tra poco sarà dall’altra parte della tastiera. Un bacio, Carolina.” Morì il 15 dello stesso mese. Mi ci vollero mesi per cercare di abituarmi all’idea che Roberto era morto. Apparve la sua raccolta di racconti e non volli neanche aprirla. Poi il monumentale 2666, di cui lui mi aveva scritto e parlato tanto, fu irresistibile. È uno dei grandi romanzi nella mia lingua, di una bestialità furiosa; il resto dell’opera di Bolaño impallidisce, al confronto. Quindi passai al libro di racconti, irregolari esercizi di un maestro di acrobazia narrativa. Alcuni sono semplicemente accomodanti, scritti alla maniera del personaggio di Sensini, per vincere concorsi o, peggio ancora, conquistare seguaci. Sempre con la sua mano maestra, sì, anche se Roberto Bolaño non scriveva con la mano. Scriveva con i denti che gli mancavano (come Auxilio Lacouture, anche se lei i molari li perse quando non aveva soldi per andare da un buon dentista, o per puro disinteresse). Paz, Huerta, Lihn, Huidobro: Bolaño ereditò il meglio da tutti. Quando andò via dal Messico, non fuggiva da loro: correva per raggiungere la palla che i maestri avevano lanciata, e che volteggiava per aria.

[1] Canzoni popolari (N.d.T.).
[2] Liquore ottenuto dalla fermentazione dell'idromele o di un succo ricavato dall'agave (N.d.T.).
[3] Cioè si ispiravano a Juan José Arreola, Juan Rulfo e Adolfo Bioy Casares (N.d.T.).
[4] A. Bioy Casares, L'invenzione di Morel (ed. Bompiani, 2000). 
[5] Ovvero, com'è spiegato subito dopo, seppe far vedere alla scrittrice ciò che nessun uomo dotato della vista sarebbe riuscito a scorgervi (N.d.T.).  

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