giovedì 30 dicembre 2010

La vera sanità cubana


Infermiera in accettazione ospedaliera al paziente infortunato: - Deve portare bisturi, pinze, siringa, filo, aspirina, forbici, asciugamano, lenzuola, antibiotici, bende e una lampadina.
Jardim - El Nuevo Herald del 30/12/2010
Gordiano Lupi
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martedì 28 dicembre 2010

Leonardo Padura Fuentes e il cambiamento cubano

Leonardo Padura Fuentes: “La mia generazione non è pronta per il cambiamento”

Il romanziere cubano Leonardo Padura - edito in Italia da Marco Tropea - ha detto che “la generazione cresciuta con la rivoluzione di Fidel Castro subirà uno choc per l’urgenza di riciclarsi a causa dei cambiamenti economici previsti dal governo di Raúl Castro, che esigono nuove risposte e non vecchie parole d’ordine”.

“Quante persone che appartengono alla generazione che va dai 45 ai 55 anni sono nelle condizioni fisiche e psicologiche per riciclarsi nel nuovo modello economico che si sta organizzando?” si chiede Padura Fuentes in un articolo pubblicato sulla rivista telematica Observatorio Crítico.

Tra le misure per rendere efficiente l’economia è in corso il licenziamento di 500.000 lavoratori statali, che dovranno cercare un’alternativa nel lavoro privato o cooperativo, o in settori statali come l’edilizia e l’agricoltura.

“Quanti possono diventare agricoltori, costruttori, poliziotti o lavoratori privati, tenuto conto dell’età e delle capacità?”, si domanda lo scrittore sul portale observatoriocriticodesdecuba.wordpress.com.

Leonardo Padura Fuentes ha 55 anni e afferma di far parte di quella che definisce “la generazione nascosta, per la sua proverbiale mancanza di volto pubblico e per l’incapacità di compiere le proprie scelte per il futuro in una società che è stata sempre rigidamente regolamentata”.

Lo scrittore aggiunge: “Adesso la mia generazione deve tentare di trovare il suo posto in un sistema competitivo, caratterizzato da nuove imposte e dalla presenza di nuove generazioni più preparate ad accettare il cambiamento”.

Leonardo Padura Fuentes è un intellettuale responsabile che ha scritto romanzi interessanti per affrontare i temi scottanti della Cuba contemporanea. Le sue domande non sono certo interrogativi retorici…

Gordiano Lupi
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Contadina di Centro Avana

di Yoani Sanchez

da Voces n. 4 – Dicembre 2010 - rivista cubana indipendente

Cayo Hueso ti si infila sotto le unghie, ti si appiccica alla pelle con il tipico odore di kerosene e di acqua di fogna che lo distingue dai quartieri di Vedado e Cerro. Gli spazi della mia infanzia avevano il puzzo e il grigiore proveniente da un asfalto dove non si estendeva mai l’ombra degli alberi. Perché nel mio quartiere il verde più vicino si trovava al parco Trillo, unico luogo dove gli uccelli potevano rifugiarsi sopra un ramo.

Sono nata in un’isola compresa tra calle Infanta e la frontiera di Belascoaín, dove andare un passo oltre la tortuosa Monte o la Galiano piena di negozi, era come uscire dalla città, avventurarsi in periferia. Sono stata “una contadina di Centro Avana”, perché gli altri municipi mi sembravano così lontani come se per raggiungerli avessi dovuto prendere il treno che portava il latte. Ricordo il mio primo viaggio verso La Rampa e l’incanto di fronte all’enorme contrasto con la mia calle Jesús Peregrino, così anonima e noiosa da far sembrare immenso un edificio di tre piani. Essere un paesano del centro, un cittadino metropolitano, è il destino di chi ha il calcagno macchiato dalla polvere di San Lázaro e dalla ruggine di Carlos III.

Il quartiere come un isolotto e alla fine un enorme lavatoio, dove sempre qualcuno strofinava un lenzuolo. La vecchia casa in affitto divisa alla meglio chiudendo porte tra le stanze e ogni pezzetto difeso con forza dalle mire espansioniste dei vicini.

In una delle stanze un paio di bambine curiose, con le braccia allenate a trasportare secchi pieni d’acqua prelevati dalla cisterna, discutevano con le donne più rozze del condominio. Corridoio stretto, rum, partite di domino tra grida iniziali e finali, per concludere con la rissa, il coltello estratto al momento giusto, il grido di “tienimi cazzo, perché lo uccido”.

La fessura della porta come un posto in prima fila per assistere allo spettacolo della violenza. Alla donna di fronte ammazzarono il marito a colpi di machete e lei si salvò per miracolo, perché portava alcuni bigodini russi sulla testa che fermarono la lama prima di raggiungere il cranio. Due fratelli combattevano tra loro usando tubi al neon e le ferite si rimarginavano con difficoltà, per colpa - diceva mia nonna - di quella polvere bianca che contenevano le lampadine. La nostra vicina sniffava colla e dopo cadeva in un letargo che io e mia sorella mettevamo in relazione con la fame, perché si avvicinava alla nostra finestra implorando un po’ di zucchero.

Se sei cresciuto a Cayo Hueso tutti credono che porti il coltello al fianco e il pugnale nascosto in una calza. Ti osservano con la commiserazione riservata a un condannato pure se coniughi bene i verbi, pronunci la “r” e tieni lontano il gesticolare da strada, vera e propria difesa contro le aggressioni. Ti guardano e chiedono: “Sei di Centro Avana, vero?”, come se immaginassero il rumore di ciabatte nel corridoio, la parolaccia lanciata contro chi getta un mozzicone di sigaro sui panni tesi ad asciugare e l’andatura da guappo con i gomiti distanti dal corpo a ogni passo.

Una marginalità che nasconde tutto, dove è più facile soccombere che riuscire a fuggire. Quando frequenti l’università ti rendi conto che nessun ragazzo delle abitazioni popolari che abbondano nella tua strada siede tra quei banchi. “Perché devi andare tutti i giorni a scuola?”, mi chiedeva mia madre, in un luogo dove dedicare un pomeriggio a leggere un libro era un segno di debolezza, una provocazione più rischiosa che mettersi a discutere con il guappo del quartiere.

In un posto come questo la frattura tra la realtà dei discorsi, delle parole d’ordine, e la vera realtà composta di attaccabrighe e degradazione era ancora più notevole. I miei genitori si ostinavano a non farci sedere sul bordo del marciapiede della strada, come se evitando di vedere le cunette grigie non venissimo a sapere che vivevamo a Comala, il posto dei morti viventi, la riserva che nutre le prigioni, un altro pezzo di città dove l’apatia è a un passo e la bara a due.

Traduzione di Gordiano Lupi
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giovedì 23 dicembre 2010

Yoani Sanchez, fotografata da Alessandro Scotti


Yoani Sanchez sui tetti dell'Avana, nel terrazzo della sua casa che scopre Piazza della Rivoluzione. Capelli scompigliati dal vento caldo di un'eterna estate tropicale. Alessandro Scotti -grande fotografo milanese - l'ha immortalata per Wired. Una stupenda immagine per augurare a tutti un Natale di libertà e tolleranza.

Gordiano Lupi
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lunedì 6 dicembre 2010

Gugulandia en italiano, por la editorial Cagliostro Press



PRÓLOGO


De la sutileza a la evidencia

Por Yoani Sánchez

Como en cada cosmogonía que se respete Gugulandia es un espejo de todos los universos posibles. La sílaba gu simboliza el primer intento humano de comunicarse con sus semejantes así que éste es el país de los que dialogan, de los que hacen preguntas y ensayan respuestas, donde no falta la inocencia y la ambición, el miedo, la soberbia y los infinitos problemas que la convivencia crea entre la gente de todos los tiempos.

Siete personajes le bastaron a Hernán Henríquez (La Habana, 1941) para el génesis de este mítico y remoto paraje de la historia humana: El rey, el brujo, el artista, el cazador, el guerrero, la mujer y un niño, a quien apodan “el piraña” por su voraz apetito. También estaban “los placatanes”, esos enormes animales que unas veces perseguían y otras alimentaban a la tribu, pero todo esto contado en las páginas de la prensa oficial cubana entre 1964 y 1980, posiblemente los años de mayor intolerancia del proceso revolucionario.

Se tenía que ser profundamente malpensado, tener vocación de Torquemada, para encontrar en estas historietas algo que contradijera la ideología del Partido, pero también se tenía que ser muy tonto para no darse cuenta de las segundas y terceras lecturas que subyacían detrás de aquellos dibujos en los que una sonrisa, una mueca o una mirada de sospecha subrayaban o matizaban las palabras. “Demasiado sutil”, decían los críticos de entonces, pero en medio de tan largas ovaciones aprobatorias, de tantos aplausos prolongados; conviviendo con la permanente apología que inundaba las otras páginas, Gugulandia era portadora de un mensaje tan fresco y alentador que terminaba siendo contestario.

En 1966 la historieta fue llevada a la pantalla grande, entre otras cosas porque su autor había comenzado su vida laboral en 1959 como dibujante de animados en el Instituto de Cine. A comienzos de 1977, los héroes de esta preficción aparecieron en 25 historietas, con una altura de once metros cada una, en una espectacular exposición titulada “El trabajo hizo al hombre”, ni más ni menos que para saludar el dieciocho aniversario del triunfo de la revolución, visitada en tres meses por más de 150 mil personas en El Pabellón Cuba, el más importante centro expositor del país.

Como muchas otras cosas los gugus se marcharon del país en 1980. Para las personas de mi generación que solo alcanzamos a ver aquellas tiras siendo niños, Gugulandia era una referencia en las conversaciones de la gente de más edad, que siempre hablaban del tema con cierto aire de superioridad, como si a los que llegamos después nos faltara algo insustituible por habernos perdido estas escenas de cuando la furia de los placatanes imperaba sobre la faz de la tierra.



Del otro lado Gugulandia encontró nueva vida. Nunca antes se había visto con colores tan nítidos, ni con la libertad que permitía exponer las ideas desembozadamente. Como ya no era necesario ser sutil enfrentó el riesgo de volverse, según los actuales críticos, “demasiado evidente”. De lo que no pudo separarse es de su gracia, proveniente de la idea original de presentar un mundo en el que se cuenta cómo se inventaron las cosas que hoy conocemos, sin que falten los humorísticos anacronismos, las falsas interpretaciones y la permanente sorpresa ante lo que se descubre. Un mundo donde los hombres elementales encuentran sus verdades gracias al error y la crítica, donde la comunicación, nacida del gu primigenio es lo más importante.

Este libro que me han honrado en prologar solo podrá entrar a Cuba de forma clandestina. Otra generación de lectores se complacerá en pasarlo de mano en mano, tal vez envuelto con la carátula de algo más inocente. Tendrá seguramente otra legión de admiradores.

mercoledì 1 dicembre 2010

La vida exiliada de Cabrera Infante (III)

La revista y el suplemento cerrarán. Demasiado independientes e idealistas, lejos de las ideas de Fidel Castro, que no considera las instancias de libertad o de desarrollo cultural. El intelectual tiene el obligo de quedarse en el binario marcado por la Revolución, como también entenderá años después Herberto Padilla, condenado y aislado por el coraje de su Fuera del juego. Entre Guillermo Cabrera Infante y el régimen de Fidel Castro hay sólo una breve luna de miel, al final de la cual cada uno seguirá por un camino distinto. Un cortometraje de 1960 que dibuja la diversión de un grupo de habaneros es el elemento que provocará la ruptura, porqué rodado por Orlando Jiménez Leal y Sabá Cabrera, hermano del escritor. A Fidel no le gusta, no tiene intentos didácticos, no sirve para educar a la rígida moral comunista, más bien describe la mala conducta de la sociedad habanera. En 1961 el cortometraje es secuestrado y prohibido, así que Guillermo revive, en la piel del hermano, la misma situación de dolor vivida durante la dictadura de Batista. La censura todavía existe y desgraciadamente más fuerte que antes, los que detienen el poder quieren callar los incómodos intelectuales. Guillermo critica esta decisión en las páginas del Lunes de Revolución, pero el único resultado que obtiene es el cierre de la revista. Fidel ya tiene listo el nuevo diario del partido único, que llamará Granma con el suplemento semanal Juventud Rebelde, alma de los jóvenes comunistas. Ésta es la nueva prensa cubana, lejana a cualquier forma de expresión de ideas y dirigida por directivas gobernativas. En la Revolución, los intelectuales ya no tienen libertad y Fidel Castro lo hace entender claramente en una frase que bien sintetiza el famoso discurso Palabras a los intelectuales, hecho el 30 de junio de 1961: “ Dentro de la Revolución todo es permitido, fuera de la Revolución, ¡nada!”


De hecho, con esta frase empieza el exilio de Guillermo Cabrera Infante, exiliado a Bruselas como encargado cultural por la embajada cubana porque incómodo en la capital Habana. En Bélgica escribe Un oficio del siglo XX (1963), quedándose en la capital con las dos hijas y la segunda mujer Miriam Gómez. Claramente, Bélgica para un cubano es la otra cara de la luna, pero Guillermo acepta el exilio con buena voluntad. Vuelve a Cuba en 1965, fecha de la muerte de su madre, pero es encarcelado por contraespionaje y se quedará en la cárcel cuatro meses. A la vuelta, además de la aventura en la cárcel, Infante se da cuenta de que la Habana ha cambiado, transformada por la dictadura en una ciudad triste, recorrida por hombres y mujeres que andan como zombies. No reconoce la ciudad llena de luces y de vida que había dejado moviéndose a Bruselas. Se da cuenta que ya no puede vivir en Cuba y la única elección que tiene es la de volver a exiliarse. Vive en Madrid y en Barcelona, pero España no es la solución ideal porque allí también opera un dictador, Franco, que no está de acuerdo con su pensamiento. La elección definitiva es Londres, tan diferente de su Habana, pero libre, donde hablan un idioma diferente pero que aprenderá tan bien y que le permitirá escribir libremente. Cabrera Infante se siente solo sin su gente, ama los cubanos, como bien notamos en Tres Tristes Tigres, una novela compleja escrita en los dialectos hablados en Cuba, que utiliza juego de palabras y diferentes recursos lingüísticos. El autor ama esta manera de escribir y la utiliza para transmitir el vínculo profundo con la tierra que lo ha parido, con una isla que hace del caos la manera de vivir, poblada por personas que se enfrentan a la vida con confianza, sin planes, burlándose de la realidad, en vez de aceptarla dramáticamente, transformándola en una oportunidad para sonreír.

En 1968 la revista Primera Plana realiza una serie de entrevistas a escritores suramericanos que viven en Europa. En una de estas entrevistas Cabrera Infante expresa públicamente sus perplejidades acerca de las contradicciones de Cuba y del castrismo. Es la primera vez que cuenta su encuentro con una Habana triste y desagradable, pero lo hace con la prensa internacional y la cosa preocupa bastante en Cuba. Infante es expulsado por la Unión de los Escritores y Artista de Cuba (UNEAC) y es declarado traidor de la patria. El escritor decide que su futuro tiene que ser libre, que ya no tiene cadenas de vínculos y regímenes dictatoriales, la única cosa que quiere es poder expresarse con libertad y sin miedo. El ostracismo de Fidel Castro sirve sólo para amargar su estancia lejana que perdurará hasta la muerte.

En 1968 publica en Londres Tres tristes tigres, primera novela de éxito, que el mismo autor llama TTT y que en origen se llamaba Ella cantaba boleros. La novela es una nueva versión de la vieja obra Vista del amanecer en el trópico y se caracteriza por el uso de un lenguaje ingenioso que introduce muchos cubanismos del habla común y añade además citas de otras obras literarias. Tres tristes tigres cuenta la vida nocturna de tres jóvenes en la Habana de 1958, y no obstante fue calificada desde el gobierno cubano como contrarrevolucionaria y fue prohibida en todo el territorio nacional. El destino de un verdadero escritor es lo de ser contrario al poder, Cabrera Infante no es una excepción y como si fuera un nuevo Heredia deja una huella indeleble en la cara del tirano. La vida de Cabrera Infante transcurre en la gris Londres, entre las aficiones de toda la vida, el cine y escribir, compone guiones y escribe The Lost City, la película de su vida hecha por Andy Garcia que critica en cada ocasión posible el régimen castrista. Desgraciadamente no tendrá la suerte de llegar a tiempo para verla.

Nunca más volverá a Cuba, fiel a sus ideas y a una rígida rectitud moral. Vive para sus obras y para el cine, polémico y excelente, irónico y manipulador del lenguaje, incansable obrero de la palabra.

En 1970 el amor entre Guillermo Cabrera Infante y el cine se vuelve realidad y el escritor se muda a Hollywood dedicándose a interesante guiones, como él de la peli Bajo el volcán de Malcom Lowry. Pero el guión de su vida está dedicado a una isla que nunca más volverá a ver. En 1972 Tres tristes tigres es traducido al inglés y publicado en Londres con el título Three trapped tigers. Quizás la apreciación literaria es una anticipación de la ciudadanía británica que llegará en 1979, aunque su obra cumbre se aprecia completamente sólo en español.

El premio Cervantes llegará en 1997 reconociendo su altura en el campo de la literatura española sin que dictadores y ostracismos puedan con ésta. Cabrera Infante es uno de los mayores escritores españoles. En 2003 llega a tiempo para obtener el Premio Internacional de la Fundación Cristóbal Gabarrón de literatura. Luego empezarán los problemas de salud, es hospitalizado en el hospital de Chelsea y de Westminster de Londres para una ruptura del anca. En el hospital contrae una septicemia que lo llevará a la muerte el 21 de Febrero de 2005 a los 75 años. En Cuba tampoco circula la noticia de su muerte, pero pronto llegará el día en que alguien pagará para sus errores.

“A la huida me empujó la vuelta totalitaria, la censura, los procesos y las condenas contra de los opositores políticos que habían participado a la guerrilla. Como muchos de los cubanos he creído en las buenas intenciones de Castro hasta cuando, llegando al poder, dijo que las elecciones demócratas eran inútiles. Me demoré unos años para dejar atrás los vínculos porqué es mucho más difícil dejar tu propio país que renunciar a la pertenencia a un partido. Y, para mí, en aquella época dejar el partido significaba sólo una cosa, el exilio, un larguísimo exilio”.


Traduzione da italiano a spagnolo di Barbara La Torre

La vida exiliada de Cabrera Infante II

El partido de Acción Unificadora (PAU) que hace cabo a Batista auspicia desde tiempo la imposición de una dictadura para que se instaure otra vez el orden en el país. Batista sube al poder sin disparos ni hostilidades, se proclama jefe de Estado sin esparcir ni una gota de sangre, al final de lo que los cubanos con ironía llaman “ el golpe del sun-sun”, referiendose a una canción que habla del sun-sun, un discreto pajarito madrugador. Los escritores nunca quedan simpáticos a los dictadores, son dolorosas espinas clavadas en las espaldas, porque el poder es como una droga y emborracharse de historia puede ser su efecto peor. Son palabras del grande poeta cubano José Maria Heredia, muerto en exilio depués de haber luchado por una Cuba libre, pero quedan bien en qualquier tiempo. “Ninguna poesia volcará nunca un tirano. Pero le deja un siñal, a veces indeleble”, añade. Guillermo Cabrera Infante escribe y deja señales indelebles en la piel del tirano, es su tarea, lo único que sabe hacer. En 1952 escribe un relato que no gusta a los censores del régimen, lo consideran obsceno y lo secuestran en todo el territorio nacional. Guillermo como pena ulterior ve prohibirse la posibilidad de firmar obras de narrativa, artículos y ensayos, prohibición que evita haciendo recurso a lo seudónimo de G. Caín, obtenido de la contracción de su verdadero nombre. El cine se converte en su amor más grande, quizás fascina el escritor más de la misma literatura, porque las imagenes expresan con inmediatez las sensacciones. En 1954, Guillermo se convierte en el joven crítico de cine de la rivista Carteles, como cuenta en el romance autobiográfico Cuerpos divinos, publicado póstumo gracias a su segunda mujer. Firma las piezas con el seudónimo que ahora lo caracteriza y que no abandonará nunca, dado que en futuro firmará las escenografías cinematográficas como G. Caín. Carteles será una pieza importante de su juventud, la redacción de la revista lo acogerá hasta el 1960 y será precisamente a partir de allí que tendrá nuevas amistades y encuentros sentimentales, juntando trabajo y pasiones como leitmotiv de su vida. Marta Calvo es la primiera mujer que casa en 1953, del matrimonio nacen dos hijas, Ana y Carola, pero en 1958 conoce el amor de su vida, la actriz cubana Miriam Gómez, que casa en 1961, después de haber devorciado de su primiera pareja. Non es un ejemplo de fieldad Guillermo, prerrogativa esta de muchos cubanos, pero Miriam Gómez será su compañera por toda la vida y debemos a ella la publicacción de Cuerpos divinos, a pesar de que el romance cuente historias de traiciones y fugazes amores vividos por el escritor con fascinantes muchachas habaneras. Guillermo cabrera es hijo de comunistas, odia a Batista con todo su corazón, lo considera un dictador inculto y arrogante, apoya a la Revolución y piensa que lo barbudos de Fidel Castro llevarán un aliento de aire nuevo en una realidad asfixiante. Por algunos años las cosas van bien, recibe la nomina de director del Consejo Nacional de la Cultura, jerente del Instituto de Cine y vicedirector de la revista Revolución, dirigida por Carlos Franqui. Cabrera Infante dirige el suplemento literario, el mítico Lunes de Revolución que hoy también queda bien imprimido en el imaginario colectivo si se piensa que un joven cubano como Orlando Pardo Lazo titula su blog Lunes de Post Revolución.

Traduzione in spagnolo di Francesca Desogus - desogus.francesca@tiscali.it