giovedì 30 settembre 2010

Come in un film di Chaplin

di Yoani Sanchez - da Generacion Y

L’uomo con il vestito liso, cappello a bombetta e scarpe enormi portava anche un vetro sulle spalle. Il suo compare, un bambino di appena cinque anni, rompeva a colpi di pietre le vetrine dei negozi e le finestre delle case affinché il vetraio potesse offrire i suoi servizi ai disperati clienti. Insieme erano un vero e proprio duo della sopravvivenza, un gruppo di lavoro emergente che riusciva appena a mantenere acceso il fuoco in casa. La storia descritta nel film “Il Monello” (1921) di Charles Chaplin è tornata a scorrere di fronte ai miei occhi mentre leggevo la lista delle attività private pubblicata dal quotidiano Granma. L’elenco dei lavori privati sembra un repertorio di miseria e dipendenza e pare più consono a un villaggio feudale che a un paese in pieno secolo XXI.


Letto da cima a fondo - contenendo il disgusto - salta agli occhi come siano poche le occupazioni vincolate direttamente alla produzione. Gli imprenditori non potranno contare su un mercato all’ingrosso dove rifornirsi di materie prime, mentre è stata soltanto annunciata la possibilità di accedere a crediti bancari, ma nessuno ha fatto cenno al tasso d’interesse. Non si parla neppure della possibilità per i lavoratori privati di importare mercanzie direttamente dai mercati oltre frontiera, perché questa attività continua a essere monopolio assoluto dello Stato. Tra le oltre 178 attività consentite, molte venivano già svolte senza licenza e il fatto di essere state incluse nell’elenco comporta la sola novità che i privati saranno obbligati a pagare le imposte. Per questo motivo c’è molto scetticismo sul fatto che queste “liberalizzazioni” dell’inventiva privata contribuiranno a risolvere i gravi problemi della nostra economia.

Questa lentezza nell’applicare i cambiamenti necessari farà sì che i cittadini continueranno a ingrossare le lunghe code di fronte ai consolati per andarsene dal paese oppure si getteranno a capofitto nella illegalità e si dedicheranno alla sottrazione delle risorse. Se le nostre autorità credono che le trasformazioni dispensate con il contagocce eviteranno che il sistema sfugga loro di mano mentre tentano di modernizzarlo, non danno il giusto peso alla sensazione di urgenza che percorre l’Isola. Tanta tiepidità nel promuovere improrogabili aperture rende fragile la situazione sociale e nessuno può prevedere come reagiranno i frustrati “monelli”, sfavoriti dai licenziamenti in massa e dalla mancanza di aspettative. Speriamo che non finiscano per distruggere le vetrine!


Traduzione di Gordiano Lupi - www.infol.it/lupi

mercoledì 29 settembre 2010

Sottigliezze del bavaglio

di Claudia Cadelo
OCTAVO CERCO

La coda dell’autobus di Coppelia è un posto speciale, un angolo così caratteristico che se un giorno scomparisse L’Avana non sarebbe la stessa. Ieri alle 10 di sera aspettavo l’autobus P4 e accanto a me una donna con sua figlia commentava quanto fosse “animata” la città per la festa dei CDR (Comitato per la Difesa della Rivoluzione, ndt). “Vuole scherzare, signora?”, le ho chiesto mentre lei mi lanciava uno sguardo da serial killer.

Assecondando l’ordine dell’autista - non c’era posto per una sola persona in più nel P4 - sono salita dalla porta posteriore. Un ubriaco dietro di me spingeva per passare per primo, ma barcollava e aveva una bottiglia di rum in mano, non è riuscito a stare in equilibrio ed è caduto. L’autista ha accelerato mentre l’uomo tentava di salire e per poco non ci ha lasciato la pelle.

La donna accanto a me che aveva parlato “dell’ambiente festivo”, ha lanciato un grido, ma io ho risposto: “Con la sbornia che si ritrova non arriverà all’angolo!”. Lei ha aggiunto: “Poteva essere solo un nero. I neri sono tutti uguali…” e si è messa a fare un discorso su “quei neri” che se l’avesse sentita Martin Luther King sarebbe morto di nuovo. Mi sono guardata attorno piena di vergogna. I miei compagni di viaggio erano tutti bianchi. Nessuno ha aperto bocca e mi sono resa conto che nessuno avrebbe detto una parola in difesa dei neri. Sono diventata isterica, dopo me ne sono pentita, ma in quel momento avrei voluto prenderla per il collo, soprattutto perché aveva fatto quel discorso davanti a sua figlia. Un esempio davvero negativo!

“Signora” le ho detto “se gridassi Abbasso Fidel! lei sarebbe la prima a irritarsi. Mi vuole spiegare perché io devo sopportare di sentirla parlare come se fosse la presidentessa del Ku Klux Klan? E se gridassi Abbasso Esteban Lazo! (uno dei vicepresidenti del consiglio con la pella nera, ndt) si irriterebbe ugualmente?”. La frase mi è venuta fuori abbastanza scomposta. La signora non ha replicato. La gente mi fissava e d’un tratto mi sono sentita come se fossi uscita da una tomba del cimitero Colón, con i vermi e mezzo teschio fuori.

Mi sono resa conto che non mi sarei calmata. Non si dovrebbe affrontare un dialogo in questo modo, ma a volte scappa la pazienza. Alla fermata di 23 e A sono scesa. Ho percorso a piedi il restante tragitto che mi separava da casa, parlando da sola.



Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

martedì 28 settembre 2010

Senza parole...

IL MONDO VOLAVA SU UN CAVALLO BIANCO

di Orlando Luis Pardo Lazo
da VOCES 2 – settembre 2010

Canzoni schifose che segnarono a morte il nostro cuore povero e provinciale. Ballate di poco valore, certamente. Poesie sdolcinate che i nostri antenati interpretarono mentre svolgevano i loro lavori domestici del fine settimana o mentre di notte facevano mediocremente l’amore (un altro lavoro domestico).


Cattiva musica. Pessima. Inimitabile e senza paragone. Kitsch tropicale da alcova. Boleri light e melodrammi pop-corn di cornuti e ricchi uomini maturi. Strofe spremute con versi indimenticabili, eufonie che ci accompagneranno ben oltre il Giudizio Finale di fronte a un pubblico ministero dello Stato o di Dio.

Con una simile colonna sonora abbiamo succhiato il latte dalla madre e abbiamo appreso le prime parole di spagnolo. Una specie di spagnolo. Melodie genetiche, generazionali, geniali nonostante la loro ingenuità. Tutto un background di quartieri distrutti sotto le grida dei neonati che siamo stati e gli onanismi onirici degli adolescenti invecchiati senza mai esserlo completamente.

Oggi Cuba viene messa a tacere a forza di grida di ripudio e demagogia politica, pasto teatrale per il volgo: ultimi movimenti niente affatto estetici di una Rivoluzione il cui repertorio musicale non farà sentire niente di nuovo.

Oggi siamo come zombi in chiave di sol sostenuto maggiore, il più noioso degli accordi. Monotonia di un pentagramma che è rimasto con i microfoni in bianco. Nessuno ricorda le minacce apocalittiche del Premier del nostro unico Partito, così come nessuno rammenta le parole dell’ultimo successo della stagione delle ballate.

Cancelliamo scene. Abbandoniamo abitazioni quasi al ritmo della risacca. Cuba come paronimo perfetto di Coda.

E, allora, quando alla fine la speranza prende le sembianze di una malattia endemica, quando sappiamo di essere soli in una generazione così vasta e che non faremo niente che dopo valga la pena di pensare, allora, stanchi di dare testate contro i fantasmi suicidi, senza saperlo ci trasformeremo in funzionari pragmatici, quando lo scintillare del giorno dopo giorno sarà una nebbia sorpassata dalle nostre cateratte concettuali di gente che si è lasciata rubare il tempo che gli è toccato vivere, allora, il dono di quella musica della nostra stupida infanzia ci aspetterà ancora lì, come un visto per salvarci, come un talismano contro le dittature di tipo totalitario o democratico, come un cuscino dove appoggiare la nuca e chiedere perdono all’amore per aver chiacchierato troppo in suo nome e per averlo praticato così poco.

La cultura intera sarà condensata solo in due o tre frasi di paccottiglia che esprimeranno meglio di qualunque trattato quel che siamo stati senza saperlo. Endecasillabi indemoniati dai quali non aveva senso tentare la fuga, perché tra le loro metafore mefitiche, in alcune delle loro innumerevoli sdolcinate sonorità (meglio della falsa intelligenza dei veri poeti), risuonerà l’anima segreta di una truffa in fase terminale chiamata cubanità.


Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

El Dorado e la sinistra del XXI secolo

di Claudia Cadelo
http://www.octavocerco.blogspot.com/

La mia unica certezza è che non sono comunista, per il resto non ho ancora le idee chiare. Mi costa fatica definirmi politicamente. Forse perché sono nata in un sistema diverso da quello vigente nel resto del mondo - fuori dai confini delle destre e delle sinistre di altri luoghi - basato sul potere di un solo uomo e retto dai suoi capricci. Mi piace ascoltare le persone quando spiegano le loro posizioni politiche (anche se pensano in maniera ortodossa), però mi sconcerta non sentirmi attratta da nessuna. A parte i diritti e la libertà dell’essere umano, non vedo altre cause per cui valga la pena di lottare.

Ma uno legge, si informa e si sforza di comprendere il mondo, soprattutto le ideologie che lo fanno muovere. Invece di salire su un aereo, le quattrocento pagine di un libro consumato da un gran numero di lettori o un documentario registrato in una memory card mi raccontano la storia dell’umanità che vive oltre il mare. In generale ho deciso di stabilire margini di comparazione minimi per non diventare pazza. Serve a poco, dal mio punto di vista, cercare di paragonare una democrazia con un capitalismo di Stato, o una dittatura con un paese in via di sviluppo. Posso confrontare gli Stati Uniti con l’Europa, il Messico con l’Argentina, il Cile o Haiti; Cuba con i vecchi paesi dell’Unione Sovietica, con l’Iran, con il Cile di Pnochet, con la Spagna di Franco e persino con la Corea del Nord. Qualunque altro paragone, Cuba con l’Uruguay, per esempio, risulta segnato da un antagonismo primario: Società totalitaria contro Stato di diritto.

Per questo quando un sindacalista europeo mi cerca di convincere in merito ai “risultati della rivoluzione cubana”, mi viene voglia di piangere. Per prima cosa devo cercare di fargli capire che a Cuba non esiste un sindacato, almeno non quello storicamente noto come sindacato dei lavoratori, che serve a far valere i diritti dei lavoratori nei confronti di padrone, impresa o Stato. Sarebbe importante andare alla radice del concetto, rispettare il significato dei sostantivi per non cadere nelle ambiguità, come dice il mio amico Reinaldo Escobar: “Pane al pane, dittatura alla dittatura”.

Su questo punti le idee di certa sinistra, sfortunatamente, tendono parecchio a confondermi. Incontro persone che condannano tutte le dittature dell’universo ma salvano il mio piccolo paese, si offendono quando sentono parlare di Franco con rispetto mentre venerano Fidel Castro. Altre odiano la stampa occidentale perché troppo sensazionalista ma non criticano la linea fissata dal partito unico nei confronti dei nostri periodici. Altri assicurano che la politica degli Stati Uniti è interventista ed egemonica, ma hanno combattuto in Nicaragua, Angola ed Etiopia. Altri ancora protestano per le strade di New York contro la guerra in Iraq brandendo un cartello raffigurante Ernesto Guevara grande un metro per un metro. Infine conosco persone che definiscono il governo del mio paese “Rivoluzione”.

Non voglio dare una mano a una sinistra che è diventata filosoficamente crudele. Tuttavia non posso accettare che certi risultati (educazione e salute suppongo) vengano raggiunti a detrimento delle mie libertà e dei miei diritti. Non posso essere obbligata a ringraziare eternamente una giunta militare al potere da oltre mezzo secolo perché c’è un medico di famiglia che mi garantisce un pap test gratuito ogni due anni. Non posso rischiare una condanna a vent’anni di galera per aver scritto quello che penso solo perché sono andata a scuola senza pagare. Non esiste niente di più spietato e di più crudo di questo “fine che giustifica i mezzi”.

Forse sono io che mi confondo, ma in questa situazione credo che ci sia qualcosa di poco chiaro. Persone di sinistra che difendono i diritti dei senza diritti, i pacifisti, i liberatori del pensiero, gli emancipati radicali del denaro, gli ultra utopici di un mondo sociale e benefico, parlano della mia isola senza usare mai vocaboli come autocrazia, militarizzazione, socialismo di Stato, stampa reazionaria, monopolio di Stato o, semplicemente, dittatura. Potrebbero non utilizzare quest’ultimo termine se pensano che sia troppo forte, ma sostituirlo con “rivoluzione” è un’iperbole eccessivamente violenta.
Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

domenica 26 settembre 2010

Il sacco dei non conformi



di Yoani Sánchez
Dalla rivista clandestina VOICES 2 - settembre 2001

Un’immagine edulcorata mostra Cuba come un paese dove ha trionfato la giustizia sociale nonostante un nemico potente come l’imperialismo nordamericano. Per oltre mezzo secolo, è stata alimentata l’illusione di un popolo unito attorno a un ideale, coraggiosamente impegnato per raggiungere l’utopia sotto la saggia direzione dei suoi capi. La propaganda politica e turistica, presentando una falsa immagine della nostra realtà, hanno diffuso la voce che gli oppositori della causa rivoluzionaria siano mercenari senza ideologia al servizio di padroni stranieri.

Viene da chiedersi come sia possibile che milioni di persone che vivono su questo pianeta possano credere che l’unanimità si sia insediata - in maniera naturale e volontaria - in un’isola di centoundicimila chilometri quadrati. Come possano credere alla favola di una nazione ideologicamente monocromatica e di un Partito che tutti sostengono perché rappresenta le istanze di ogni abitante.

Nell’anno 1959, quando trionfò l’insurrezione contro il dittatore Fulgencio Batista, i barbudos giunti al potere misero nel sacco dei loro nemici coloro che definirono “sbirri e torturatori della tirannia”.

Durante gli anni Sessanta, come conseguenza delle leggi rivoluzionarie che finirono per confiscare tutte le proprietà produttive e lucrative, la definizione iniziale si ampliò e furono aggiunti al novero dei nemici “i proprietari terrieri e gli sfruttatori dei poveri”, “coloro che vogliono ritornare al mortificante passato capitalista” e altre categorie identificate con lo stesso taglio classista.

Arrivati gli anni Ottanta caddero nel deposito dei contrari al sistema anche “coloro che non sono disposti a sacrificarsi per un futuro radioso” e “le scorie”, un’invenzione linguistica che pretendeva di definire un sottoprodotto della fornace dove si forgiava non solo la società socialista ma anche l’uomo nuovo, che avrebbe avuto il dovere di costruirla e un giorno anche il piacere di beneficiarne.

Le etichette ideologiche non rimarcavano la differenza tra chi si era opposto subito alle promesse di trasformazione sociale e chi ci aveva creduto ma aveva visto frustrate le sue aspirazioni di fronte alle promesse incompiute. Perché ogni promessa ha una scadenza, soprattutto se è politica e quando scadono le proroghe proclamate nei discorsi, termina la pazienza e vengono fuori posizioni difficili da etichettare per gli eterni classificatori di cittadini. Per questo motivo da diversi decenni a Cuba alcune persone sostengono che le cose dovrebbero essere fatte in un altro modo e concludono che un’intera nazione è stata spinta alla realizzazione di una missione impossibile, ci sono molti cittadini che vorrebbero introdurre alcune riforme e altri che pretenderebbero cambiare tutto.

Ma il sacco è ancora lì con la sua insaziabile bocca aperta e la stessa mano pronta a cacciare dentro chi si azzarda a confrontarsi con la sola possibile “verità” monopolizzata dal potere. Non importa se sia socialdemocratico o liberale, democristiano o ecologista, o semplicemente un non conforme indipendente; se non è d’accordo con i precetti del solo partito consentito - il comunista -, viene considerato un oppositore, un mercenario, un traditore della patria e alla fine viene classificato come un agente al soldo dell’imperialismo.

Molte persone continuano a guardare con ostinazione l’immagine edulcorata che esibisce un processo sociale capace di fare giustizia e cercano di giustificare l’intolleranza che lo accompagna a partire dai suoi risultati - ormai piuttosto deteriorati - nei campi della salute e dell’educazione. Queste persone non possono capire che i modelli usati per caratterizzare l’immagine trionfalista del sistema cubano, sono ben diversi quando scendono dal piedistallo dove sono stati messi. Paziente ospedalizzato e alunno di una scuola non sono sinonimi di cittadini di una repubblica. Quando uomini e donne in carne e ossa - con propri sogni e aspirazioni - si trovano fuori dalla “zona dei benefici della rivoluzione”, scoprono di non possedere uno spazio privato per formare una famiglia, né un salario corrispondente alla quantità di lavoro, né un progetto di benessere lecito e onesto. Quando riflettono su quali siano le strade disponibili per modificare la loro situazione, comprendono che resta solo la scelta di emigrare o di delinquere. Se pensano a come poter modificare la situazione del paese, pieni di paura si troveranno di fronte il minaccioso dito accusatore di uno Stato onnipresente, l’insulto che scredita, l’intolleranza rivoluzionaria che non ammette critiche o proposte. Si renderanno conto di essere finiti nel sacco dei dissidenti, nel quale per il momento troveranno soltanto stigmatizzazione, esilio e carcere.

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

venerdì 24 settembre 2010

Domani parlerò di Cuba al liceo Leonardo di Milano

Domani 25 settembre - ore 9/11 - sarò al Liceo Scientifico Leonardo di Milano per parlare di Cuba e della blogosfera alternativa cubana, con particolare riferimento all'attività di Yoani Sanchez e alla situazione attuale dell'isola caraibica. partiremo da una breve analisi storica per arrivare alle riforme di Raul e alla recente liberazione delle attività por cuenta propria.

giovedì 23 settembre 2010

Nero Tropicale, il lato oscuro di Cuba...

Licenziamenti e privatizzazioni



di Caludia Cadelo
http://octavocerco.blogspot.com/

Lavorare per lo stato è un supplizio. Il salario non serve a niente, la produttività è inesistente, la contabilità caotica, inoltre si devono sopportare le abuliche riunioni di un sindacato che rappresenta tutti meno che i lavoratori. Malgrado ciò, questi ultimi hanno affrontato tutti questi problemi con stoicismo e hanno sopportato anni di statalismo nei loro posti di lavoro. Non è il masochismo a tenere vincolati i lavoratori alla burocrazia statale, ma la poca fede che un cambiamento in senso privato durerà abbastanza da farli invecchiare.

Non è la prima volta che il governo decide - con la corda al collo - di consentire l’iniziativa cittadina per sostenere l’economia nazionale. Abbiamo già visto negli anni Novanta sorgere piccoli ristoranti familiari, case da affittare, trasporti privati, rivendite di cibo e di oggetti per la casa. Oggi non resta quasi niente di quella esplosione di lavoratori per conto proprio. Il problema è: per quanto tempo si potrà tenere aperto un negozio?

Tirare su un piccolo ristorante, affittare una stanza o vendere pizze non può essere un cambiamento di breve durata. La gente vuole vedere il frutto del suo impegno, ma un burocrate che un giorno bussa alla porta e si porta via tutti i permessi è un evento accaduto spesso nella storia della rivoluzione. Una mia amica ha gestito un piccolo ristorante per anni abbastanza popolare, ma una sera è arrivato un ispettore e si è portato via i documenti per “verificarli”. Ancora oggi attende che le vengano restituiti. Non ha potuto più aprire la porta del suo ristorante. Non ha ricevuto nessuna spiegazione. Non ha commesso nessun delitto.


Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

Fidel e i malintesi...

Che cosa stai facendo lì? Mi stai fraintendendo?

TIMOTEO - EL NUEVO ERALD

Il capitalismo è cattivo... ma cosa si mangia?



Il cancelliere cubano Bruno Rodriguez parla alle Nazioni Unite.
"Il capitalismo è cattivo, cattivissimo..."
"OK... sbrigati. Vediamo se usciamo a mangiare qualcosa..."

TIMOTEO - da EL NUEVO ERALD

La fine del "socialismo" cubano


Timoteo su EL NUEVO ERALD - Dove finirà il socialismo cubano?

venerdì 17 settembre 2010

CHUCO E LA FINE DELLA CLASSE OPERAIA

di Orlando Luis Pardo Lazo
http://orlandoluispardolazo.blogspot.com/



Non sono stati Fidel e Raúl a licenziarlo dal suo posto di lavoro. È stata la vita a farlo e senza bisogno di aiuto.

Chucho è morto oggi.

Erano mesi che orinava troppo. Era anemico. Aveva poco appetito. Era dimagrito.

I dottori scoprirono una bolla compatta nella sua prostata. Fecero un prelievo, ma il campione non bastava in laboratorio. Fecero un altro prelievo. Sanguinò. Bestie di studenti che risparmiano anestesia, Dio solo sa il motivo. Chucho disse che non avrebbe sopportato un altro esperimento selvaggio. Continuò a sanguinare nelle feci. Vomitò. Lividi sul corpo. Ebbe uno scompenso. La lingua aggrovigliata in meno di mezz’ora. La vista alla fine del mondo. Morto nel Calixto García senza dare tempo a nessuno (non gli avrebbe fatto niente neppure la claque giovanile bolivariana). Vegliato questa notte tra giovedì e venerdì presso l’impresa di pompe funebri di Infanta, La Nacional.

Mia madre è rimasta lì tutta la notte. Io me ne sono andato. Non sopporto la luce fioca e la mediocrità istituzionale che ci ostacola persino dopo morti.

Chucho è stato un lottatore. Aveva più di settant’anni. Senza figli. Senza moglie. Per puro caso ha avuto vicino mia madre.

Si erano conosciuti nella fabbrica di bambole Lilí, proprio quando mia madre si stava innamorando di mio padre, l’onesto impiegato del Dipartimento Personale che aveva quasi vent’anni più di lei.

Io nacqui nel 1971. Mia madre si mise a fare la casalinga. Chucho attese, proprio come uno di quei personaggi di García Marquez che lui non ha mai letto. Passò un secolo o un millennio.

Quando tutti furono invecchiati, Chucho cominciò a frequentare la nostra casa di Lawton. Arrivava prima dell’alba. Aiutava a fare quel che poteva. Vecchietto arzillo con più energia e onestà della maggior parte dei giovani, incluso me stesso.

In quel momento mio padre sembrava il padre di mia madre. Chucho e lui giocavano a scacchi sotto un porticato degli anni Novanta. Mio padre aveva ancora la forza per sconfiggerlo. Aveva il vantaggio storico di chi ha avuto le mani libere per dedicarsi a lavori di tipo intellettuale.

Chucho, il tuo è stato un lavoro manuale. La lotta. Da gestore della Lotteria negli anni Cinquanta a Segretario di Sezione in un Partito Comunista di Cuba già stanco del comunismo cubano.

Sono le tre del mattino a Cuba. Scrivo nudo nella mia stanza, mentre lui riposa nei locali de La Nacional di Infanta, sala A (terzo piano), non molto lontano dalla sua casetta in un labirinto di calle Manglar. La notte ci unisce nella desolazione per il vecchio Chucho e per l’adolescente tardivo Landy.

Qualche volta, quando mio padre era già morto, lui avrebbe voluto dettarmi le sue memorie, ma con delicatezza ho sempre rifiutato. Non me ne pento. La sua vita non meritava l’inganno d’un racconto. La sua vita era una cosa oltremodo concreta. Un enigma. Come la parola “chucho”, per esempio, anche se tra i suoi amici quasi nessuno conosceva il suo nome e ancor meno il suo cognome (sempre che l’abbia avuto).

Chucho, ci mancherai.

Chucho, che avresti potuto essere mio padre nel vortice proletario dei lavori volontari degli anni Sessanta.

Chucho, che non ci credevi più però confidavi ancora nella Rivoluzione.

Con la tua grafia da cavallo che io mettevo in bella copia con la macchina da scrivere Underwood che era stata di mio padre. Verbali di riunioni e inviti a riunioni. Questo mi dava Chucho da dattiloscrivere.

Tac tac.

Tic tac.

È finito il tempo della nostra classe sociale.

Con te muore lo spirito del sottoproletariato. Povero, ma onesto. Trovavi soluzioni senza mettere di mezzo gli altri. Avevi un sorriso da personaggio cittadino uscito da un racconto di Lino Novás Calvo. Gridavi al telefono come un contadinotto montanaro. Questo eri. Un guerrigliero titubante in una reggia abbandonata che i suoi padroni originali chiamarono L’Avana.

L’organo ufficiale del Partito Comunista di Cuba di sicuro non si renderà conto della “perdita rilevante di un compagno di strada”, ma con Chucho è caduto il capo d’un tempo che nessun cubano rimpiazzerà. In un certo senso, per me è come se fosse morto Fidel (si assomigliavano molto nell’aspetto fisico quando si approssimava la fine).

Chucho, non voglio continuare a parlare di te usando la seconda persona singolare, quel vizio vuoto di chi dispensa dolori.

Arrivano le prime ore del mattino e presto albeggerà su questa Avana post rivoluzionaria. Mia madre è rimasta ancora più sola. Il tuo amore per lei è un poco più vicino a realizzarsi in un luogo che forse non esiste.

Chucho, mi dispiace. Addio.


Traduzione di Gordiano Lupi
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Castro, è il momento di confessarsi
Larry King attende la sua ultima intervista.

da EL NUEVO HERALD di domenica 12 settembre 2010

giovedì 16 settembre 2010

RIFORME CUBANE E CAPITALISMO DI STATO

1. Campi da golf, multinazionali e lavoratori in esubero

Il primo agosto 2010 il Parlamento cubano ha approvato la costruzione di sedici campi da golf, ha ridotto le trattenute bancarie alle multinazionali e ha annunciato la soppressione di un milione di posti di lavoro statali. Il regime parla di socialismo e di “difesa della rivoluzione”, ma approva un lungo elenco di lavori privati (cuentrapropistas) tra i quali si legge il deprecabile ritorno dei domestici e dei lustrascarpe, costruisce campi da golf, vende case agli stranieri, riduce le tasse alle multinazionali, sopprime posti di lavoro statali. Il governo dice che sta modernizzando il socialismo per affrontare la crisi economica mondiale e l’embargo, ma queste misure sembrano un piano di riforme di stampo capitalista, ideato per far pagare la crisi ai lavoratori. Si tratta di misure volte a potenziare il capitalismo di Stato, come lo definisce la blogger Yoani Sánchez, da tempo unico modello economico cubano. Disuguaglianza e diversità di opportunità sono all’ordine del giorno nella Cuba castrista, ma adesso lo saranno ancora di più, perché le misure annunciate andranno soltanto a beneficio delle imprese straniere che operano sull’Isola.

Raúl Castro ha ripetuto spesso che “il socialismo è irrevocabile”. Il Ministro dell’Economia ha affermato che Cuba non sta copiando né la Cina né il Vietnam, perché “Il modello cubano ha una caratteristica ben precisa: la difesa della rivoluzione e la scelta socialista”, visto che “è stato scartato “ogni tipo di riforma in senso capitalista”. Si tratta soltanto di menzogne sostenute dai fratelli Castro e dal partito Comunista Cubano, perché il cambiamento in senso capitalistico è sempre più netto. Spagna, Brasile e persino Stati Uniti stanno approvando il corso degli eventi.

Il cancelliere spagnolo ha lavorato insieme alla chiesa cubana per la scarcerazione dei prigionieri politici, pur dichiarando di “non aver suggerito a Raúl Castro nessun tipo di riforme, ma che il progetto di cambiamento economico è un’idea del presidente cubano”. Il cancelliere brasiliano, Celso Amorín, ha affermato al Clarin: “Cuba è uno stato in evoluzione, il suo sistema politico cambierà, così come si sta modernizzando il sistema economico, come dimostrano le nostre imprese che investono in quel paese”.

La statunitense Sarah Stephens, direttrice del Centro per la Democrazia nelle Americhe, a luglio era a Cuba per parlare di energia e problemi ambientali. Ha criticato l’embargo del suo paese contro Cuba e ha detto al Clarin che “Raúl Castro liberando i prigionieri politici sta lanciando un messaggio al governo degli Stati Uniti per dire che è disposto a portare avanti riforme economiche in senso capitalista”.

La Camera di Commercio degli Stati Uniti e altri gruppi nordamericani contrari all’embargo stanno facendo pressione perché tale misura impopolare venga tolta. Myron Brillant ha detto al Congresso: “L’isolamento non aiuta il rinnovamento politico. Il cammino più rapido per migliorare il tenore di vita sull’Isola è intessere relazioni commerciali, turistiche e politiche. Stiamo perdendo occasioni di lavoro nei confronti di impresari canadesi e brasiliani. Il governo cubano è ormai una reliquia storica”.


2. Socialismo o capitalismo di Stato?

Il regime giura sul socialismo, ma nella realtà segue altre strade. Governi e imprese discutono con naturalezza di nuove relazioni commerciali e di investimenti a Cuba. Molti impresari e parlamentari nordamericani chiedono a Obama di poter partecipare alla spartizione della torta cubana. Nessuno si preoccupa, invece, per le dichiarazioni ufficiali di rifiuto del capitalismo e della riaffermazione del socialismo.

Il modello economico cubano si fonda da tempo sul capitalismo delle multinazionali, sulle imprese miste e sullo sfruttamento dei lavoratori, diretto da una burocrazia corrotta, dittatoriale e menzognera. Il popolo cubano perde anche quel poco che doveva essere salvaguardato, l’eredità sociale della rivoluzione, rassegnandosi alle disuguaglianze, alla disoccupazione e ai miseri salari che non servono per sopravvivere. Adesso nuove misure economiche annunciano il licenziamento di un gran numero di impiegati statali e l’ampliamento del lavoro privato. Non dimentichiamo che i grandi affari sono da tempo nelle mani delle multinazionali e delle imprese miste.

Il deterioramento della situazione economica cubana è dovuto alla riduzione del turismo, alla caduta del prezzo del nichel, al pessimo raccolto della canna da zucchero e a un piano di sviluppo agricolo che stenta a partire. La maggior parte della popolazione riscuote salari da fame che si aggirano sull’equivalente di dieci - quindici dollari al mese. Raúl Castro sostiene che “sono state approvate importanti misure che costituiscono un cambiamento strutturale per consentire lo sviluppo del nostro sistema sociale e renderlo sostenibile per il futuro”. Nonostante tutto dichiara che “il socialismo è irrevocabile”.

A Cuba esistono da tempo piccole attività private. Per esempio nella gastronomia abbiamo i paladares, ristoranti a conduzione familiare, gli affittacamere, i gestori di piccole case private che lavorano nel turismo e gli agricoltori che vendono direttamente i loro prodotti. Per non parlare del mercato nero e delle attività clandestine di ogni tipo che da anni prosperano a Cuba, come taxi illegali, compravendita di pezzi di ricambio, registrazione di CD e di pellicole… Adesso vengono legalizzate molte attività e i nuovi imprenditori potranno assumere impiegati e retribuirli, pagando le relative imposte allo Stato. Come prima iniziativa sono stati autorizzati sia i taxi privati che i parrucchieri.

Al tempo stesso è stato dato il via ai lavori per costruire sedici campi da golf, mentre sull’Isola adesso se ne contano soltanto due, il tutto ricorrendo a capitali internazionali. Il governo ha autorizzato la vendita di case agli stranieri, aperta negli anni Novanta e subito dopo congelata. Il governo ha rinegoziato le obbligazioni del debito estero con creditori internazionali (circa un milione di dollari) e la riduzione delle ritenute bancarie alle imprese straniere. In ogni caso l’annuncio più preoccupante è quello relativo alla drastica riduzione dell’impiego pubblico di oltre un milione di lavoratori. La ricomparsa di Fidel Castro è servita per sostenere le scelte di Raúl, che ha negato qualsiasi tipo di lotta tra ortodossi e riformisti all’interno del Partito Comunista.

3. Un milione di posti di lavoro in meno

Da aprile 2009 il governo cubano ha intrapreso una politica di riforme. Sono stati ritardati o sospesi i pagamenti ai fornitori e sono tornate le misure di razionamento dell’energia, che non si vedevano dai tempi del periodo speciale, dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Raúl Castro aveva messo in allerta gli impiegati statali con il discorso del 4 aprile 2010, tenuto al Congresso della Gioventù Comunista. In tale sede aveva affermato che esisteva “un esubero” di oltre un milione di lavoratori e che “il problema andava affrontato con fermezza e senso politico”. Al tempo stesso si era lamentato della mancanza cronica “di costruttori, operai agricoli e industriali, maestri, poliziotti e altri mestieri indispensabili che poco a poco stanno sparendo”.

Raúl Castro ha detto in Parlamento che “dopo mesi di studio, il Consiglio dei Ministri ha deciso di ridurre gradualmente la pianta organica del settore statale”. Sarà un processo drastico e di portata epocale, la cui prima fase si concluderà nel primo trimestre del 2011 e avrà come scopo quello di licenziare oltre un milione di lavoratori statali “inutili” o “improduttivi”.

Raúl ha affermato con forza: “Va cancellata per sempre l’idea che Cuba sia il solo paese al mondo dove si possa vivere senza lavorare”. Il Presidente cubano ha inserito nel suo discorso retorico una grave menzogna, offensiva per milioni di cubani che lavorano, purtroppo senza riscuotere adeguata retribuzione.

Operai specializzati, medici, maestri e infermiere ricevono stipendi che oscillano tra i 10 e i 15 dollari, mentre soltanto chi ricopre posti direttivi negli ospedali e nelle scuole raggiunge cifre di 35 o 40 dollari. Raúl Castro dice che mancano i maestri, ma molti vanno a lavorare all’estero, soprattutto in Venezuela, così fanno i medici, per poter inviare denaro ai familiari e risparmiare qualcosa. A Cuba restano i peggiori maestri e i medici meno preparati, mal pagati e sfruttati, sia nella scuola che nella sanità. I salari che i cubani riscuotono in pesos nazionali non hanno un potere d’acquisto in un’economia retta dal peso convertibile, una sorta di dollaro mascherato. Questo è il volto capitalista di Cuba.

4. Lo Stato Cubano, agenzia di lavoro per le multinazionali

Il 95% dei salariati sono impiegati statali, ma non è vero che il 95% dei mezzi di produzione è nelle mani dello Stato. Tutto il contrario. L’impiego è la sola cosa statale del sistema cubano, tutto il resto viene appaltato alle multinazionali. La maggior parte della produzione, dei servizi e persino il turismo sono privati, sotto forma di imprese miste. Gli impresari si associano con lo Stato, che offre mano d’opera a basso prezzo, qualificata ma sfruttata, garantendo alti guadagni a spagnoli, canadesi, cinesi, russi, brasiliani e venezuelani. I lavoratori vengono pagati pochissimo e in moneta nazionale, mentre la maggior parte dei prodotti devono essere acquistati in CUCS (pesos convertibili - 24 pesos nazionali = 1 CUC = 1 dollaro). All’Avana le cose vanno meglio e i cubani riescono a recuperare qualcosa al margine del turismo, ma nelle zone interne del paese la situazione è peggiore. Il furto è generalizzato, la corruzione e il mercato nero sono i soli modi per resistere alla miseria. Facciamo un esempio pratico. Una guida bilingue, che lavora 12 o 14 ore al giorno, riceve un salario statale mensile di 400 pesos (17 dollari). La multinazionale che lo utilizza paga allo Stato cubano 150 dollari. Pare evidente lo sfruttamento del lavoratore e il plusvalore realizzato dallo Stato che intasca la differenza. Questo è socialismo? Questo è sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Proprio ciò contro cui si scaglia Marx nel Capitale. Per questo motivo il popolo cubano vive “inventando” e cerca di trovare il modo per ottenere moneta convertibile.

Adesso si parla di licenziare circa il 30 per cento della forza lavoro statale per obbligarla a impiegarsi nell’agricoltura e nell’edilizia, settori già in crisi e senza sbocco. Anche il turismo è in crisi e per la congiuntura economica sfavorevole molti lavoratori hanno perso l’impiego. A Varadero diversi impiegati sono stati sospesi per alcuni mesi e sono rimasti senza salario. Mentre si verificavano questi fatti incresciosi, il Ministro del Lavoro e della Sicurezza Sociale, Margarita González, con grande faccia tosta, affermava: “Cuba non licenzierà i lavoratori in maniera massiccia e non si lascerà contagiare da riforme in senso neoliberista”.


5. Un capitalismo senza diritto di sciopero e libertà sindacale

Il progetto di licenziare oltre un milione di lavoratori statali è diretto a favorire guadagni secondo lo schema capitalista che pratica il governo di Raúl Castro e il Partito Comunista Cubano. Fa parte di un pacchetto di misure in arrivo, come la riduzione e la chiusura delle mense aziendali, la revisione e il ritiro dei sussidi e delle elargizioni nelle attività culturali e sportive, ma anche nell’alimentazione degli studenti (che già si sono mobilitati reclamando per la pessima qualità del cibo). Si annuncia la scomparsa definitiva della tradizionale “tessera di razionamento”, che da tempo non basta a garantire un minimo di sussistenza

Queste riforme provocano un crescente malessere popolare. Ma a Cuba i lavoratori non dispongono per difendersi del diritto di sciopero che esiste nella maggior parte dei paesi capitalisti. I sindacati dipendono dal Ministero del Lavoro, sono succursali della dittatura del partito unico. Non esiste il diritto di organizzarsi, discutere, fare assemblee per dibattere liberamente su questa complessa situazione, su come affrontare i licenziamenti e i bassi salari. Con la giustificazione di non servire “la controrivoluzione” e “non fare il gioco del nemico”, si impedisce la democrazia operaia, si proibisce lo sciopero e la mobilitazione di piazza per chiedere aumenti di stipendio.

6. Una pentola a pressione

Nel febbraio di quest’anno, la morte di Orlando Zapata Tamayo, prigioniero in sciopero della fame, ha prodotto una crisi politica nel paese. Il giorno successivo, un altro giornalista dissidente, Guillermo Fariñas, ha cominciato in casa sua un altro sciopero della fame. Ci sono state prese di posizione di artisti e di intellettuali di altri paesi che ripudiano l’embargo e solidarizzano con il popolo cubano. Pablo Milanés si è permesso di dire che “bisogna condannare Fidel Castro, dal punto di vista umano, se il dissidente Fariñas muore di fame”, e ha definito “una farsa” le elezioni che si sono tenute ad aprile. La scrittrice Ena Lucía Portela, iscritta alla Unión Nacional de Escritores y Artistas de Cuba (UNEAC), ha levato la sua voce solitaria e critica dicendo: “Adesso basta, accada quel che accada…”.

Il malessere sociale è crescente, non solo per la mancanza di libertà, ma per un sempre più basso tenore di vita, anche se la repressione soffoca il desiderio di ribellione. Ma nell’ottobre del 2009 si sono registrate proteste studentesche nell’Istituto Superiore d’Arte dell’Avana, per il cibo cattivo e la mancanza di igiene. Prima c’erano state denunce per la mancanza del diritto a viaggiare liberamente all’estero. Sono molte le espressioni di ribellione giovanile, soprattutto clandestine. Ricordiamo gruppi musicali come i Porno Para Ricardo capitanati da Gorki Aguila, rapper come Los Aldeanos ed Escuadrón Patriota, che si esprimono con canzoni contro il regime e la burocrazia, chiedendo libertà e diritti civili. I loro CD non sono ufficiali, ma vengono riprodotti clandestinamente. Un maggior acceso a Internet (i cubani possono usarlo ma la connessione costa cara ed è possibile effettuarla solo dagli hotel e da pochi punti Etecsa) allarga gli spazi informativi e di protesta. Basti pensare a Yoani Sánchez e al sito Generación Y, che commenta criticamente le difficoltà quotidiane e la burocrazia, ma non può certo essere considerata una controrivoluzionaria.

In questa situazione, nel mese di luglio il governo ha accettato la mediazione della Chiesa Cattolica e del cancelliere spagnolo per cominciare a liberare 52 prigionieri politici, molti dei quali sono già stati trasferiti in Spagna. Si tratta di un successo importante nel campo dei diritti umani. Non dimentichiamo che gli stessi governi che reclamano il rispetto dei diritti e la libertà per il popolo cubano, sono i rappresentanti delle multinazionali pronte a fare affari d’oro con la dittatura cubana e si disinteressano del fatto che milioni di persone lavorano per un salario ridicolo.

7. Una nuova rivoluzione socialista

In una delle loro canzoni, Viva Cuba Libre, il duo rapper Los Aldeanos afferma che “Ernesto Che Guevara, vero comandante, è il solo che riconosciamo”. Non è mai stato più opportuno ricordare Guevara e la battaglia contro burocrazia e privilegi che caratterizzò la sua gestione durante i primi anni di governo. Ricordiamo le critiche di Guevara alla crescente subordinazione del regine castrista nei confronti del Partito Comunista Sovietico. Il Che diceva: “Rivoluzione socialista o caricatura di rivoluzione!”. Fidel ha sempre negato una vera rivoluziona socialista, con i fatti e con le parole, ma soprattutto ha negato definitivamente il socialismo dopo la fine dell’Unione Sovietica e ha cominciato un percorso di restaurazione capitalistica. La dittatura sta imponendo un capitalismo di Stato che non tiene conto delle necessità popolari e che ha esautorato il popolo dalla proprietà dei mezzi di produzione.

I cubani hanno diritto a un salario degno di questo nome, non possono andare avanti con cifre pari a 10/15 dollari mensili che guadagnano adesso. Uno stipendio minimo deve arrivare a 200/300 CUCS (dollari) e va abolito il sistema perverso della doppia moneta. Sarebbe ora di finirla con la distinzione tra mercati e negozi riservati ai ricchi e quelli dove si servono i poveri. Non sono molto socialisti i privilegi speciali di cui gode la burocrazia al potere. A Cuba non deve più esistere il sindacato unico, ma deve affermarsi la libertà sindacale, il diritto di scioperare, dissentire e riunirsi. Non devono più esserci prigionieri politici. Non deve più esistere un partito unico, ma va dato spazio alla libera formazione dei partiti e a libere elezioni. Entrare e uscire dal paese non deve essere più soggetto a restrizioni per i cittadini. Il permesso di uscita e di entrata è un aberrante strumento di coercizione che ha fatto il suo tempo. Internet deve essere libero e alla portata di tutti. La censura non deve colpire musica, arte e informazione. I giovani devono potersi associare e poter presentare liberamente le loro proposte. Un piano economico nazionale serio deve recuperare il monopolio del commercio con l’estero, eliminare il doppio sistema monetario e aumentare i salari in maniera sostanziale. La pianificazione economica deve eliminare le differenziazioni sociali, la corruzione di chi governa e deve sovvertire la restaurazione capitalista. Devono essere recuperate le conquiste nel campo della salute e dell’educazione ottenute nei primi anni della rivoluzione dal popolo cubano.

Sono molte le cose da fare per migliorare le condizioni del popolo cubano, ma purtroppo viaggiano in direzione opposta alle prime riforme che abbiamo visto estrarre dal cilindro del governo rivoluzionario. Per ottenerle servirà un’altra rivoluzione?


Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

venerdì 10 settembre 2010

Vecchio, avevi ragione!


Traduzione



Vecchietta sulla tomba del marito: "Vecchio, dicono che Fidel ha detto in un'intervista che tu avevi ragione"

Primo Verme: "Ma la guerra nucleare non cominciava ieri?"

Secondo Verme: "Certo, ma le agenzie di stampa imperialiste tacciono".


Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Un riconoscimento tardivo

REAZIONI DELLA DISSIDENZA CUBANA ALLE AMMISSIONI DI FIDEL SUL FALLIMENTO DEL MODELLO COMUNISTA

I leader della dissidenza interna cubana hanno sostenuto all'unanimità che le affermazioni di Fidel Castro sul fallimento del modello economico comunista praticato per anni sull'Isola rappresentano un riconoscimento "tardivo" di una situazione che penalizza quotidianamente ogni cittadino.
"Fidel ha detto le stesse cose che noi sosteniamo da tempo: il sistema non funziona più", ha dichiarato Héctor Palacios, del gruppo dissidente Unidad Liberal de la República de Cuba.
Castro ha espresso il suo pensiero nel corso di un'intervista rilasciata al giornalista Jeffrey Goldberg, corrispondente della rivista The Atlantic. La settimana scorsa, Goldberg l'aveva intervistato all'Avana e gli aveva chiesto chiesto se valesse la pena esportare il sistema economico cubano in altri paesi.Secondo il blog di Goldberg, Castro avrebbe risposto: "Il modello cubano non va più bene neppure per noi".
Goldberg ha riconosciuto successivamente - nel corso di un'intervista rilasciata al The Miami Herald - che la dichiarazione era stata fatta in maniera informale, ma ha tenuto a ribadire che in ogni caso Castro "non stava scherzando".
L'economista dissidente Martha Beatriz Roque ha detto che "a Cuba non è mai esistito un modello economico e che il cittadino si è dato da fare con le sue forze, giorno dopo giorno, per fronteggiare la crisi e la mancanza di opportunità". "Questo tipo di morale ha caratterizzato tutti questi anni", ha aggiunto la Roque. "Ma è tardi per trovare una soluzione. Adesso ci sono troppi problemi da risolvere".
Goldberg e altri analisti ed esperti della situazione cubana all'estero hanno interpretato la dichiarazione di Castro come un'autorizzazione implicita perchè il fratello Raúl possa impostare una serie di riforme volte a dare ossigeno all'economia.
Tuttavia, alcuni membri del blocco dissidente che vivono sull'Isola non credono che Castro stia concedendo "via libera" alle riforme economiche per correggere la direzione della politica cubana.
"Non ritengo che stia autorizzando una politica nuova", ha detto l'attivista Darsi Ferrer, direttore di Cubabarómetro e del Centro de Salud y Derechos Humanos Juan Bruno Zayas. "L'unica soluzione è che il governo si faccia da parte e, soltanto allora, sulla strada della libertà e dei diritti civili, troveremo valide alternative".
Hector Palacios non crede alle riforme economiche e non pensa che Fidel voglia autorizzare cambiamenti epocali. "Fidel è un essere umano molto difficile da capire e su questo argomento sono sicuro che cercherà di dare la colpa a qualcun altro'', ha detto. "Sta dicendo queste cose adesso perchè non è più a capo del governo".
Nessun media nazionale - stampa o televisione - ha riportato notizie in merito alle parole di Fidel Castro. Molto strano, perchè di solito le sue Riflessioni e opinioni occupano grande spazio e vengono presentate con imponente rilievo.
Oscar Espinosa Chepe, altro economista dissidente, ha fatto rilevare che Castro è considerato uno degli elementi più conservatori della nomenclatura, ma che in questo momento non aveva altra possibilità che "riconoscere" la crisi.  "Dispiace perchè questa ammissione giunge con grande ritardo e soprattutto dopo aver fatto incarcerare migliaia di persone che hanno lottato per proporre cambiamenti costruttivi", ha affermato Chepe.
Gordiano Lupi - www.infol.it/lupi

giovedì 9 settembre 2010

CUBA, LA SOLA

di Orlando Luis Pardo Lazo

Habernos quedado solos es un placer.
Estar solos a esta hora sin hora de la historia es un privilegio.
Solos.
Puedo sentirlo en el aire de la madrugada librísima de Cuba.
Solos y libres de cualquier exceso de personal.
Paradójicamente, Cuba construyó otra suerte de paraíso al que en un inicio había planeado.
Cuba cavó su propio silencio, su desconexión, su espacio imposible entre insolidaridades.
Ahora sólo queda disfrutar del vacío original.
Cubaom…
Abro la boca y trago una rebanada de nada.
Puedo dar testimonio a los cubanos del mundo de que la noche en esta isla sigue siendo bellísima, atroz, un milagro de lesa cubanidad.
Los cubanos desaparecen de noche y sólo entonces la patria nos resulta privada: una Cuba potable y para nada comunitaria, una Cuba íntima, ingrávida, atmosférica y, por supuesto, galáctica.
El asfalto patina de la humedad.
Los patios son monstruos insondables.
Me doy cuenta de que estos barrios de la periferia ya estaban idénticos en los años cuarenta del siglo pasado (un siglo que en absoluto ha pasado).
No hay una sola fachada doméstica que sea la herencia moderna de la Revolución.
La silueta sinuosa de las calles, las laberínticas escalinatas, los parterres pensados para ser jardines eternos, los contenes, los garajes con sus portones de fábrica, las chimeneas cancerígenas, pasillos con escaleras y apartamentos de alquiler, baldosas baratas que todavía pernoctan conmigo, arcos falsos y perfectos, parques con pinos (son los únicos que envejecieron, los que no fueron talados por el Estado), las líneas férreas en curva y el matadero vil (las vacas también desaparecieron, por suerte, después de miles de muertes por electrocución y puñal), los portales jamás prendidos ahora pero poco a poco con columpios de nuevo, los nombres tatuados en vidrios y arquitrabes: Villa Fulana, Villa Mengana, Villa Ciudad que tenías nombres y no un frío número de inventario.
Es intolerable tanta belleza coagulada.
Cuba fue país. Yo me muero.
Da dolor no la ruina, sino su conservación intacta.
Da miedo tanto museo.
La cordura cubana se me hace precaria de madrugada.
Soy testigo, Cuba. Estoy loco. Mejor mátame tú.
¿Quién más te podría ver? ¿Quién te piensa a base del olor atávico de tus panaderías? ¿Cuántos repararon en los pitazos de un barco a kilómetros de distancia allá en la bahía? ¿Dónde están todos, además de leyéndome en trance? ¿Qué perdimos ahí pero dónde, cómo?
Soy terminal, Cuba. Soy tuyo.
Nos acabamos y tú quedarás, incólume. Cruel. Santa.
Una Cuba incapaz de incubar ni media ciudadanía cubana.
Una Cuba nunca decrépita, simplemente vaciada.
Una Cuba que quiso no serlo tanto.
Y la soledad de estos páramos urbanos en el corazón con que sobrevivo es una cicatriz a la que ya no podría renunciar.
Porque esa Cuba curada soy también yo.
Esa carcasa cársica es mi esqueleto, mi esquela funeraria de animal incivil que imagina que existe el lenguaje.
Tengo el don delirante de deambular aún por aquí, barboteando píxeles y párrafos.
He visto cosas que ustedes los humanos no creerían.
Soy único, póstumo.
Estoy de vuelta a casa y sé que, cada noche, conmigo se tumba a dormir el último de los cubanos.
Sueño por ustedes la pesadilla de los justos.
Bendigan, pues, esta insania insomne de labios abiertos (no me callo, no me van a callar).
Sueñen ustedes, por favor, con el eco hueco de mis pasos sin permiso en la noche sin noche cubana (es la ley del más feliz y, créame, en medio de mi tristeza suicida no hay ninguno que sea tan feliz como yo hoy).
Despiértense con el dolor de mis palabras a flor de párpados (lo veo todo, nada me ciega).
A ratos, a la luz del alma, cuando me acuerdo de que tarde o temprano amanecerá y el sol abolirá este milagro con H, los amo uno a una como se aman los fantasmas que se han hecho congénitos de tanto visitarnos.
A ratos, a la sombra del desarraigo (ese otro don para quien sobreviva a su vértigo), cuando se acuerden de que más temprano que tarde la ilusión de mi discurso se difuminará, ámenme fantasmal o al menos fantasiosamente ustedes a mí.

di Orlando Pardo Lazo
http://orlandoluispardolazo.blogspot.com/
LUNES DE POST REVOLUCION

Una terribile eredità

UNA TERRIBILE EREDITÀ
Romanzo
Perdisa Pop - euro 12,00 - pagine 128
Collana diretta da Luigi Bernardi


Un soldato cubano in Angola vive un incubo di cinque anni che lo porterà a conoscere orrore su orrore, fino all’esperienza indicibile del cannibalismo. Da reduce, quel ricordo diventerà per lui insopportabile, un peso destinato a trasformarsi in brama di carne. Metodico come il più inumano degli assassini, sceglierà allora le strade povere dell’Avana per dare la caccia alle sue vittime innocenti. Una storia cupa sull’ossessione del male e, insieme, un viaggio impietoso in una terra che resta ancora da scoprire. L’esplorazione della cultura di un popolo s’intreccia alle trame spietate di una guerra condotta in modo barbaro fino all’inverosimile. Il punto di partenza è infatti l’Angola, dove i soldati cubani sono costretti a vivere un tormento assurdo e privo di logica, nel cuore di un’Africa selvaggia, tra mangiatori di scimmie, ritualità macabre e violenza efferata. A vivere l’incubo è un cittadino comune, con una moglie incinta che lo attende all’Avana e, come sorte, un percorso senza ritorno nella follia. Asciutto, teso e lucido, il romanzo procede con ritmo inflessibile per concentrarsi sul ritorno a casa del reduce, dove la spersonalizzazione operata dalla guerra e dalle crudeltà di un regime segneranno le ultime tappe del suo destino. Rimasto vedovo, l’uomo si ciberà di innocenza, paradossalmente senza smettere la propria sensibilità, l’amore per il figlio, né il senso di colpa. Così la storia si fa emblematica, disegnando scenari in cui il macabro s’allea con la realtà, la pena con la follia, l’amore con la morte.

Il canto di Natale di Fidel Castro


Nero Tropicale, il lato oscuro di Cuba...


A Natale, la mia biografia non autorizzata!


Il modello cubano

Grande notizia sul Granma di oggi e pure sugli schermi di Cubavision dove Randy Alonso sta organizzando una Tavola Rotonda straordinaria. Mio padre è preoccupato, mia madre guarda la pentola sul fuco in attesa di un pugno di riso e pochi fagioli, i vecchi spioni del CDR fremono, gli opportunisti pure, ché devono ancora decidere da quale parte stare. Veniamo ai fatti, però, se no finisce che divago e faccio letteratura, quella meglio lasciarla a Cabrera Infante, io sono soltanto Alejandro Torreguitart, scrittore senza un chavito in tasca.
Jeffrey Goldberg e Fidel Castro hanno fatto una bella chiacchierata nella cornice romantica dell’Acquario Nazionale, scena che fa venire a mente un film di Humberto Solás, dove un uomo e una donna si scambiano parole d’amore mentre i delfini danzano. Questo è un altro film, però, di fronte ci sono uomini veri, machos duri e puri, pure se adesso conta poco, Fidel ha fatto autocritica su tutto, persino sui froci.
La bomba del giorno non sono i gay, a quel problema ci pensa Mariela e poi mica sono un problema, anzi, non lo sono mai stato, a parte qualche anno di lavori forzati e diversi suicidi in galera. Il vecchio errore sulle personcine stravaganti che si radunavano alla Rampa è roba del passato, Fidel ha detto che non ha mai avuto pregiudizi, ma era molto occupato a salvare la sua terra, era in piena guerra fredda e non poteva pensare ai froci, non era roba per lui.
Fidel sforna una retromarcia al giorno, da un po’ di tempo a questa parte, pare intenzionato a vincere il Nobel per la Pace con pose da vecchio santone, da Nelson Mandela dei tropici, pure se tra lui e Mandela ci corre quanto tra me e Lima, non so se afferrate il paragone. Il modello cubano non va più bene per l’isola, confida alla rivista statunitense The Atlantic e Jeffrey Goldberg allibito scrive che il vecchio leone non rinnega il passato ma attualizza le cose al mondo che cambia. Pure io resto di sasso, mica perché non sia d’accordo con il Coma andante - per dirla alla Zoé Valdés -, ma perché sono esterrefatto che se ne sia accorto pure lui, vecchio elefante del passato, economista in capo, esperto massimo delle nostre disfatte. Non è più tempo di fare i comunisti, dice Fidel. Forse non lo è mai stato, ma di sicuro non conviene dalla caduta del muro di Berlino, dalla scomparsa della Russia e del blocco sovietico. Tutte cose successe diversi anni fa, mi pare, e in mezzo c’è stato un periodo speciale che ci siamo mangiati cotolette di gatto e bistecche di condor.
Adesso attendiamo le mosse di Speedy Gonzales, visto il via libera del vecchio Fidel, vero capo di Cuba nonostante gli acciacchi, unica guida riconosciuta che santifica gli ebrei, riconosce l’Olocausto e bacchetta Ahmadineyad. I vecchi comunisti ideologici sono avvisati, ché a Cuba non è più tempo di comunismo, adesso ci apriamo al mercato e vediamo come va a finire.
Mio padre sfoglia il Granma del mattino, comprato dal vecchietto all’angolo per pochi centesimi, scuote la testa e mormora sconfortato che non ci capisce più niente. Non sei il solo papà, non sei il solo. Consolati comunque. Almeno tu non devi governare.


Alejandro Torreguitart Ruiz
L’Avana, 9 settembre 2010-09-09

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

martedì 7 settembre 2010

Sara Gomez (1943 - 1974), la prima donna del cinema cubano

Sara Gómez è una regista nata all’Avana nel 1943 e morta nel 1974, quando era nel periodo migliore del suo genio creativo. Frequenta la Scuola Secondaria e subito dopo si specializza al Conservatorio dell’Avana dove segue un corso di musica della durata di sei anni. Svolge esperienze giornalistiche nel periodico studentesco Mella e nel settimanale HOY, domingo. Comincia a lavorare presso l’ICAIC nel 1961 e i primi incarichi la vedono nel ruolo di aiuto regista a fianco di autori come Tomás Gutiérrez Alea e Jorge Fraga dai quali apprende i segreti del mestiere. Collabora con la popolare regista Agnés Varda alla realizzazione del documentario Saludos cubanos, che vede la troupe impegnata in una sorta di giro dell’isola. Dal 1962 al 1963 gira alcune note didattiche per l’Enciclopedia Popolare, nel 1962 dirige il suo primo documentario e per alcuni anni si dedica a questo genere di pellicole. È promossa regista di fiction nel 1974, quando realizza lo storico De cierta manera, suo primo e unico lungometraggio che utilizza elementi documentaristi e racconta una storia d’amore. Tra l’altro la pellicola viene conclusa da Tomás Gutiérrez Alea, Julio García Espinosa e Rigoberto López, a causa della prematura scomparsa della giovane regista. Sara Gómez è stata la prima donna regista dell’industria cinematografica cubana e la sola nella storia ad aver diretto un lungometraggio di fiction. I temi fondamentali affrontati dalle sue opere sono stati la cultura popolare, le tradizioni, la delinquenza, il razzismo e le donne. La sua improvvisa scomparsa ha privato il cinema cubano di un talento creativo che, nonostante la sua giovinezza, aveva già lasciato un’impronta definitiva e incancellabile nella sua opera.

FILMOGRAFIA ESSENZIALE

Plaza vieja (1962)
Solar habanero (serie Enciclopedia Popular) (1962)
Historia de la piratería (nota didattica) (1963)
Iré a Santiago (1964)
Cumbite (Aiuto regista) (1964)
El robo (Aiuto regista) (1965)
Excursión a Vueltabajo (1965)
Guanabacoa: Crónica de mi famiglia (1966)
...Y tenemos sabor (1967)
Una isla para Miguel (1968)
En la otra isla (1968)
Isla del Tesoro (1969)
Poder local, poder popular (1970)
Un documental a propósito del tránsito (1971)
De bateyes (1971)
Atención pre-natal (1972)
Año uno (1972)
Sobre horas extras y trabajo volontario (1973)
De cierta manera (1974)

Claudia Cadelo racconta Fidel Castro

Vent’anni
di Claudia Cadelo
http://octavocerco.blogspot.com/

Ho fatto un grande sforzo per non scrivere su Fidel Castro. Per prima cosa perché non riesco a dire niente di serio sul conto di una persona (a volte mi piacerebbe prendere le cose meno alla leggera), in secondo luogo perché la lettura delle sue riflessioni mi fa lo stesso effetto di alcune riviste di fantascienza (mi piace il genere), e terzo perché il Comandante in Capo è oggi, nonostante tutto, un fantasma del passato della politica cubana.
Ma non smette di parlare! Pubblica libri, predice il futuro della specie umana, parla di se stesso, confonde José Martí con Lenin, cambia il passato, annulla l’oggi e fa le bizze nel presente perché ha i giorni contati. Continua ad apparire a ripetizione su palcoscenici molto più simili a un teatro dell’assurdo che alla politica senza speranza di un sistema in rovina. Può essere nell’acquario come in una sessione straordinaria dell’Assemblea Nazionale, ma anche se le messe in scena sono ridondanti servono ad assecondare i suoi capricci. Circondato sempre da guardie del corpo (le chiamano avatares per via della prestanza fisica) l’anziano non cade ma vacilla per i meandri della sua mente distrutta dal potere. Dopo aver condotto per tanti anni una vita da messia, oggi è impossibile per Fidel Castro pensare che la sua morte non cambierà il corso della storia, che l’anno zero non si ripeterà, che Cuba continuerà il suo cammino e che suo fratello farà o non farà qualche cambiamento quando lui non ci sarà più (prima di essere lui stesso assorbito dal Cambiamento quando resterà solo). Ha scritto il suo apocalittico copione come anteprima della sua dipartita. Non ci porterà via con lui perché non può, ma fino all’ultimo istante della sua permanenza sulla terra distribuirà ruoli, taglierà teste, offenderà i suoi nemici e annuncerà - per mezzo di qualunque allucinante teoria - la fine del mondo. Morirà, ma prima tenterà di farci credere che tutta l’umanità finirà nella fossa insieme a lui.
Isolato da tutto, la realtà si è trasformata nello specchio di un futuro dove la sua immagine non è compresa. Ormai non gli interessa la storia e la guerra fredda è un cadavere putrefatto che non sarà mai rianimato. La sua unica possibilità è costruirsi uno scenario dove lui non sia la premonizione della sua stessa malattia, ma la malattia del resto dell’umanità: la guerra nucleare come palliativo della mortalità di un semplice essere umano. Chi ci crede bene e chi non ci crede sarà spinto da paura e opportunismo a collaborare per eseguire questo sporco lavoro. Ogni attore della messa in scena interpreta diligentemente il suo ruolo, che sia chiedere a tutta la plastica cubana di riprodurre i cinque eroi fino a sollecitare in lacrime un bacio del Comandante.
Mentre al governo fanno i salti mortali per evitare il rapido collasso del sistema economico, i poteri si rimettono i sesto e la corruzione si rimodella al nuovo volto del totalitarismo insulare, Fidel Castro - all’Università dell’Avana - cerca l’eternità nella stessa terra che lo inghiottirà. “Cuba ha il duro compito di avvisare l’umanità del pericolo reale che sta correndo, e in questa attività non dobbiamo perderci d’animo”. Malgrado ciò il suo discorso inutile si perde nei volti di un auditorio composto da ventenni annoiati, che non si sente in debito, che chiede solo di fuggire dal paese da una porta qualsiasi e che in merito a un possibile scontro nucleare ricorda solo un film intitolato “Lisanka”. Il compagno Fidel parla di fronte a un pubblico disinteressato alla sua incompresa mortalità e alla sua previsione di ecatombe atomica, perché la sola cosa imprevedibile degli studenti dell’Università dell’Avana sono i loro vent’anni

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

Podcast alla radio Svizzera

LINK AL PODCAST IN TRE PARTI PER ASCOLTARE:

http://www.rsi.ch/podcast/player/player.cfm?quanti=12&can=ReteDue/Moby_Dick&tit=Moby

LINK ALLA TRASMISSIONE:
http://retedue.rsi.ch/home/networks/retedue/mobydick/2010/09/04/cuba.htmlRete DueRSI Radio Televisone della Svizzera Italiana6903 Lugano BessoSvizzeraTel. +41918039444

giovedì 2 settembre 2010

Sono alla Radio Svizzera!

Sabato 4 settembre sarò a Lugano alla Radio Svizzera per partecipare a un programma su Cuba insieme a Mariela Castro, figlia del presidente cubano Raul. Il programma andrà in onda dalle 10 alle 12. Si potrà seguire anche in Italia su internet sul sito della Radio Svizzera. In studio anche il dottor Franco Cavalli - parlamentare socialista. Sito Radio Svizzera: www.rsi.ch. Ringrazio per l'eventuale diffusione della notizia.
Gordiano Lupiwww.infol.it/lupiwww.lastampa.it/generacionywww.tellusfolio.it
http://gordianol.blogspot.com/